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La questione del diritto del lavoro e delle politiche del lavoro è cosa seria

La questione del diritto del lavoro e delle politiche del lavoro è cosa seria, e come tale va affrontata. Dico questo perché fino ad oggi populismo ed effetti mediatici hanno fatto da padroni senza portare ad alcun risultato socialmente apprezzabile. Occorre tornare a comprendere chi eravamo per poter capire chi o come potremo essere, ed in questo cammino partirei dell’art. 1 della nostra Costituzione :”L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.

Era il 1948, ed in realtà il riferirsi dell’Italia come fosse uno “Stato Unico e monolitico” era solo una dichiarazione. L’Italia era ed è tuttora un territorio vario e variegato la cui storia è densa di “divisioni”! L’art. 1 della Costituzione viene scritto come una sorta di atto di denuncia, di ribellione a questa scissione attribuendo la sovranità al popolo.

Non si è lavorato bene al quel progetto di unità ed unitarietà, e proprio questa mancanza genera continue tensioni sociali ed economiche. Perché? Perché pur non facendo nulla dal punto di vista fattuale, economico, industriale, sociale, dello sviluppo e così via, in termini legislativi si è sempre ragionato come se l’unità, l’equilibrio si fosse realmente raggiunto. In tal modo, si è trascurato il Terriotorio quale elemento fondamentale e fondante la società, l’economia, lo sviluppo e  la cultura di un Paese.

Un legislatore che produce leggi senza tenere conto del “territorio” produce politiche sociali di sdradicamento sociale e demografico, una politica sociale ed economica che si traduce nel fenomeno dell’  “esclusione”! Io ritengo che vi debba essere una rapida, forte ed incisiva inversione di tendenza. Occorre rimettere al centro il “Territorio”, occorre ripartire dal territorio al fine di costruire attorno ad esso un sistema sociale che debba essere “inclusivo”. Non è possibile prescindere dal territorio se si vuole rispettare il “popolo” e dare un senso a ciò che viene definita democrazia; se poi tale democrazia si ritiene essere “fondata sul lavoro” mi pare evidente che il ”territorio” deve condurre le leggi e le politiche del lavoro.

È la legislazione che deve andare verso il territorio, rispettarlo, valorizzarlo e non viceversa. Esso controlla e comanda determinando necessità, potenzialità, occupazione, crescita, benessere e sviluppo economico e sociale. Rispettare il territorio non significa certo – come fatto finora – creare aree di esenzione, di fiscalità agevolata, tutto ciò non fa altro che creare ed esacerbare emarginazione, sacche di povertà e conflitti sociali. Il rispetto del territorio significa condividerne anzitutto la cultura, solo essa può essere il motore di qualsivoglia politica sociale ed economica; attraverso la cultura si annullano le differenze, le intolleranze.

La cultura è “inclusiva”! Come si trasferisce tutto ciò in politica del lavoro? Costruendo un sistema imprenditoriale che per prima cosa deve sposare, fondersi con il territorio, interpretarne cultura e bisogni: in tal modo l’impresa diventa anch’essa inclusiva (Olivetti); l’indotto, la cultura e il senso di appartenenza si trasformano in inclusione, cura, salvaguardia, tutela del patrimonio esistente e di quello che si intende creare.

Dall’inclusione si genera tolleranza. Ed ecco allora che, scevri da condizionamenti e retaggi populisti, si deve pensare ad un serio ed analitico studio del territorio teso ad identificare tutto quanto necessario alla qualificazione di esso, alla crescita professionale dei cittadini ed alla conservazione e sviluppo delle potenzialità economiche di esso. Le politiche devono essere volte all’identificazione delle professionalità necessarie, ai percorsi scolastici necessari, ed alla condivisione dei progetti. L’impresa deve essere agevolata ma deve garantire al territorio la continuità culturale ed il sostegno economico.

Ecco perché la legislazione non potrà che essere “territoriale” nel rispetto di tutto quanto sopra detto. Il territorio dovrà condurre le politiche attive del mercato del lavoro identificando i percorsi lavorativi; dovrà condurre le politiche di sviluppo imprenditoriale ed in questo contesto tornando ad immaginare l’impresa quale elemento centrale della società, elemento inclusivo non solo del lavoratore ma anche della famiglia. Solo in questo modo si potrà sviluppare il seno di appartenenza che potrà portare ad effetti positivi sia sul piano culturale che sociale. Una politica che dovrà differenziare le varie situazioni non al fine di emarginare ma al fine di consentire la costruzione di una democrazia reale fondata sulle differenze.

Differenze si, ma tutelate, favorite, coltivate, gestite e condivise. Di esempi ne abbiamo tanti, ed essi possono anche guidarci nella gestione dall’altra grade emergenza del nostro tempo: l’immigrazione. Ripartiamo da noi stessi. La base su cui costruire il nuovo sistema del lavoro e del welfare non può non essere solidale, collaborativa e fondata su una visioni ed obbiettivi comuni. Possiamo riprendere un’esperienza storica italiana che però guarda al futuro. Un sistema di conciliazione con il bene comune, un sistema lontano anni luce dalle professioni del lavoro e della produzione chiuso su stesso e clientelare.

Un sistema che valorizza il talento come patrimonio della collettività in una logica aperta, meritocratica e solidale. Lo sviluppo del welfare aziendale, calato nel territorio, un modello di tutela contrattato e decentrato è a mio avviso il terreno di scambio  per la costruzione del nuovo modello di relazione sociale. La costruzione di un comune obbiettivo non escluderà il naturale conflitto che potrà svilupparsi fra le varie parti sociali, ma esso si ridurrà ai minimi termini.

Questo sistema-che prenderà il nome meno soggetto a rievocare strumentali discussioni- quindi, si può sviluppare ragionando attorno ad alcune direttrici fondamentali quali: relazioni industriali non conflittuali e ispirate a una autentica logica collaborativa sia nelle fasi positive che negative e in cui tra le imprese e i lavoratori ci sia pari dignità e condivisione delle scelte strategiche e di gestione; potenziamento di un sistema di welfare decentrato e contrattato fondato sulla bilateralità e sul welfare aziendale, altro ambito di proficua gestione mista; a livello più generale riproporre e in qualche modo “istituzionalizzare” una modalità di concertazione tra il governo e il complesso delle parti sociali magari prevedendo una concertazione suddivisa per comparti, in cui il ruolo dello Stato sia di sostegno specifico, mediatore e infine di indirizzo verso l’interesse generale e il bene comune e non di “notaio”. L’idea base del “del sistema”  è quella della condivisione di interessi e di conoscenza che potrebbe diventare non una chimera ma un elemento vincente in grado di offrire soluzione all’impresa ed ai lavoratori e all’organizzazione dello Stato inteso come comunità. Mi preme evidenziare del sistema in generale, l’idea di inclusione, non tanto e non solo del lavoratore ma anche della socialità che gli sta intorno, come la famiglia per arrivare a tutti coloro che sono portatori dei medesimi interessi.

Questa inclusione passa attraverso un nuovo sistema di welfare, passa dalla condivisione delle problematiche e delle opportunità delle famiglie e dei lavoratori, come la scuola, la sanità , i periodi di vacanza e così via, fino a sfociare in un sistema autoformativo che va oltre la sola dimensione professionale e attività lavorativa e che riguarda un vero e proprio sistema di vita. Diventa un sistema inclusivo perché quel lavoro non rappresenta unicamente uno sbocco funzionale all’attività lavorativa in sè ma può diventare un punto di approdo di un percorso in cui è apprezzato e condiviso l’intero e organico sistema di relazione, di coinvolgimento delle famiglie, di assistenza e di socialità.

Come detto è un sistema di vita in cui si apprende sul campo, con l’esperienza è un proficuo passaggio generazionale. In altre parole è un sistema in cui si fa la squadra. Ma è un sistema aperto e non autoreferenziale. Nel senso che il figlio del formaggiaio non deve diventare per forza formaggiaio e per contro, coloro che volessero accedere a tale mestiere non devono per forza avere il papà o la mamma formaggiai, altrimenti si prefigurerebbe una limitazione e questo non sarebbe accettabile. Un “sistema”  fatto a vasi comunicanti tra i diversi mestieri e professioni. Un sistema così concepito eleva e mette sullo stesso piano tutte le professioni e tutti i mestieri senza becere classificazione di serie A e di serie B. I lavori, tutti, hanno pari dignità.

Parte delle nostre criticità e delle nostre distonie è dovuta proprio al fatto che abbiamo negato le nostre origini e pensiamo sempre di fare qualcosa per cui non siamo portati, che non ci si addice. Lo slogan è: siamo come siamo. Questa è la via italiana alla gestione mista o alla co-gestione alla quale penso. Un’ipotesi di lavoro certamente migliorabile ma credo solida dal punto di vista delle finalità. A questo punto domando: avremo più la possibilità di realizzare un cambiamento positivo del nostro Paese seguendo un percorso “autoctono” oppure scimmiottando modelli importati?

Ovviamente il “sistema” basato sul territorio e la territorialità potrà e dovrà fare i conti anche con una diversa gestione dell’economia e dl costo della vita; diversamente da oggi ciò dovrà essere letto come una opportunità e non come discriminazione.

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