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Cosa si pensa a Gaza del riavvicinamento tra Israele e Turchia

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L’accordo raggiunto domenica scorsa, a Roma, e firmato il giorno successivo ad Ankara e Gerusalemme, per porre fine a sei anni di gelo tra Israele e Turchia (qui l’articolo di Formiche.net), ha coinvolto, indirettamente, anche la popolazione palestinese residente a Gaza.

Sebbene il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vanti un rapporti di amicizia con il leader di Hamas, organizzazione (terroristica) che dal 2006 detiene il potere nella Striscia, Khaled Mashaal, non tutti a Gaza hanno accolto positivamente la notizia della normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Israele. Mentre alcuni pensano che il riavvicinamento tra i due Paesi permetterebbe ad Ankara di patrocinare, da una posizione privilegiata, la causa degli amici palestinesi nel conflitto con Israele, altri guardano al coinvolgimento di Gaza nella distensione come a una scelta puramente strategica.

IL COINVOLGIMENTI DI GAZA NELL’ACCORDO

Affinché la Turchia accettasse di seppellire l’ascia di guerra con Israele, e si buttasse alla spalle lo spiacevole incidente della Freedom Flotilla – il casus belli a partire dal quale le relazioni tra i due Stati sono state interrotte – Ankara, inizialmente, pretendeva che Israele, come terza condizione dell’accordo, acconsentisse a eliminare il blocco della Striscia di Gaza. Poiché c’era da aspettarsi che Gerusalemme non avrebbe acconsentito a una simile richiesta, tanto più dopo l’ulteriore spostamento a destra del governo Netanyahu (qui, l’articolo di Formiche.net), le parti sono riuscite a trovare un compromesso. Israele permetterà alla Turchia di costruire un ospedale adeguatamente attrezzato a Gaza, una centrale elettrica e un impianto di distillazione per rendere l’acqua potabile. Gli aiuti provenienti dalla Turchia, e destinati alla popolazione palestinese della Striscia, invece, passeranno attraverso il porto israeliano di Ashdod. In cambio, la Turchia impedirà ad Hamas di condurre attività militari, o mettere a punto piani, contro Israele. L’Organizzazione palestinese, però, manterrà la propria sede diplomatica in Turchia. Infine, la Turchia supporterà Israele nel risolvere la questione dei quattro cittadini israeliani dispersi a Gaza, di cui due sicuramente morti.

VOCI DISCORDANTI A GAZA

A Gaza circolano diverse opinioni sul riavvicinamento tra Israele e Turchia. “Mentre alcuni, inclusi funzionari di Hamas, hanno descritto l’accordo come un’opportunità, dato che la Turchia potrebbe porre fine all’assedio di Gaza, altri reputano improbabile che l’accordo possa fare la differenza per lo stato delle cose a Gaza”, riporta l’emittente qatarina Al-Jazeera

La Turchia, motivata da principi etici e morali, si è prodigata per mitigare gli effetti dell’assedio israeliano su Gaza”, ha scritto un analista residente a Gaza, poche ore dopo la firma dell’accordo.
Un funzionario di Hamas (non l’unico), consigliere del precedente primo ministro a Gaza, Ahmed Yousef ha affermato: “La Turchia è un paese che è sempre stata al nostro fianco e noi siamo consci del suo impegno nel tutelare i nostri interessi, anche durante i conflitti che si sono combattuti a Gaza. I suoi aiuti non sono mai venuti meno. Questo è il meglio che si poteva ottenere da Israele”, scrive Al-Jazeera.

Sebbene il presidente turco Erdogan abbia chiamato il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas, per aggiornarlo sull’accordo firmato con Israele, alcune fonti interne all’Organizzazione hanno affermato che l’accordo non sarà d’aiuto alla popolazione della Striscia di Gaza. “Israele e il partito islamista di Erdogan sono gli unici a essere favoriti dall’accordo”, ha proseguito la fonte.

Altre voci provenienti dall’Anp (Autorità nazionale palestinese) credono che “Hamas cercherà di sfruttare l’accordo in suo favore, tuttavia, questo si rivelerà essere una trappola in cui Erdogan sta solo sfruttando la Striscia di Gaza”, si legge sul quotidiano israeliano Jerusalem Post.
Talal Abu Zarifa, membro del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, ha evidenziato come nell’accordo la Turchia abbia favorito i suoi interessi politici nella guerra al terrorismo, piuttosto che la risoluzione della crisi a Gaza, riporta il quotidiano.

Anche l’Organizzazione no profit a capo della Freedom Flotilla, la Turkish Humanitarian Relief Foundation (Ihh), è timorosa che l’accordo possa portare a un riconoscimento internazionale del blocco di Gaza, piuttosto che alla sua fine. “Un accordo che preveda l’utilizzo del porto israeliano di Ashdod non indebolirà il blocco, ma comporterà il suo riconoscimento ufficiale”, ha scritto l’Ihh su Twitter. L’Organizzazione, cioè, teme che l’accordo contribuisca a legittimare come definitiva una soluzione che può essere solo transitoria, sancendo definitivamente il controllo di Israele sulla Striscia di Gaza.

L’IMPEGNO DI ANKARA NELLA STRISCIA

Da diverso tempo la Turchia è impegnata nel garantire una maggiore prosperità economica a Gaza e nella West Bank. In seguito all’accordo firmato lunedì scorso con Israele, un primo carico di aiuti destinati alla popolazione palestinese dovrebbe partire oggi, scrive Al-Jazeera. “I nostri fratelli palestinesi a Gaza hanno sofferto a lungo, e molto, e con questo accordo abbiamo intenzione di permettere loro di tornare a stare meglio”, ha affermato il primo ministro turco Binali Yildirim durante una conferenza ad Ankara.

Il think-tank turco Tepav (Center for multilateral studies at the Economic Policy research Foundation of Turkey), in collaborazione con Tobb (Union of Chambers and Commodity Exchanges of Turkey), ha elaborato un piano da 5 milioni di dollari, per la ricostruzione di Gaza, che include anche un porto, un tempo presente nella Striscia, ma poi distrutto durante i combattimenti della Seconda intifada. La costruzione di un porto, sebbene contribuirebbe a migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese, è sempre stata negata dal governo israeliano per motivi di sicurezza.
La leadership politica di Hamas, che a lungo ha pubblicizzato i benefici che deriverebbero dall’apertura di un porto a Gaza, ha recentemente affermato che “la Striscia ha bisogno e desidera un porto e che la questione è stata appoggiata anche dai turchi”, riporta Al-Jazeera. Un funzionario di Hamas, Khalil al-Hayya, ha detto: “Di cosa ha paura il mondo? Che ci mettiamo a contrabbandare armi? Non abbiamo intenzione di farlo e il mondo è invitato e monitorare ogni movimento che passerebbe per il porto”.

LA CRISI A GAZA

Le prime restrizioni imposte da Israele su Gaza risalgono agli anni ’90. Intensificate nella decade successiva, quando Ehud Barak e Ariel Sharon tentarono di reprimere la Seconda intifada, la situazione è vertiginosamente precipitata nel 2006, con la vittoria elettorale di Hamas e l’imposizione delle prima restrizioni. Oltre che per il blocco, la situazione a Gaza è andata peggiorando anche per via dei tre conflitti, che dal 2008 a oggi, sono stati combattuti contro Israele.

A un anno dall’ultimo scontro, le opere di ricostruzione a Gaza sono riprese. “Delle 19 mila abitazioni distrutte nessuna è stata ultimata e solo per 2 mila i lavori sono appena iniziati. All’incirca 100 mila palestinesi sono sfollati e solo il cinque per cento dei materiali necessari per la ricostruzione hanno ottenuto il permesso di entrare a Gaza”, scrive Al-Jazeera.

La scorsa settimana, un report delle Nazioni Unite ha messo in evidenza che se lo stato delle cose non cambia, Gaza potrebbe trasformarsi in un posto invivibile entro il 2020. Il nuovo report pubblicato dall’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo e sul Commercio) ha accusato Israele di “politiche discriminatorie”, descrivendo come l’attacco condotto dallo Stato ebraico nel 2014 (Operazione Margine di protezione) abbia contribuito a causare un calo del quindici per cento del Pil palestinese. Il report accusa Israele di aver invertito il processo di sviluppo intrapreso da Gaza. Il termini utilizzato nella versione originale del documento è “de-development” e serve a indicare, nel complesso, l’effetto delle misure adottate da Israele contro Gaza: dall’espropriazione di risorse, alla distruzione della capacità produttive, passando per l’incremento della dipendenza economica.

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