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Alfano, Mattarella, Renzi e le intercettazioni galeotte

Dal Quirinale sono partiti segnali di “irritazione”, diligentemente raccolti da Marzio Breda sul Corriere della Sera, per voci, retroscena e quant’altro su intese tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo amico ed ex collega di partito Dario Franceschini per la soluzione della crisi che dovesse scoppiare con la vittoria del no al referendum sulla riforma costituzionale.

D’accordo, non ci sono intese. Mattarella, come anche Franceschini, credo, si augura al pari del suo predecessore Giorgio Napolitano che al referendum vinca il sì perché non venga perduta un’altra occasione di cambiare una Costituzione che sarà pure “la più bella del mondo”, come ancora dicono i vari Pier Luigi Bersani, ma fa viaggiare lo Stato alla velocità, si fa per dire, di una diligenza.

Se non vi sono intese però, mi pare che fra Mattarella e Franceschini ci siano almeno affinità elettive, visto che il quirinalista del Corriere della Sera ha raccolto anche pareri e sospiri sulla ferma convinzione del presidente Mattarella di non mandare il Paese alle urne, in caso di crisi, con due leggi diverse fra Camera e Senato. Leggi, in verità, che sono state diverse anche in passato ma non così diverse come questa volta, con il cosiddetto Italicum per l’elezione dei deputati e il Porcellum, depurato dalla Corte Costituzionale, per l’elezione dei senatori: il primo con tanto di premio di maggioranza alla lista più votata e il secondo senza premio, per cui il governo potrebbe avere la fiducia a Montecitorio e non a Palazzo Madama, dove pure ne avrebbe bisogno se il bicameralismo attuale dovesse sopravvivere al referendum.

Occorrerebbe pertanto, in caso di crisi, un governo che anche al Quirinale chiamano “di scopo”, per cambiare il sistema elettorale ed evitare che il prossimo appuntamento con le urne si trasformi in una lotteria suicida per la democrazia. Un governo di scopo che sarebbe proprio quello che Franceschini ha praticamente suggerito nell’ultima riunione della direzione del Pd quando, contrastato dal ministro Graziano Delrio, ha detto che bisogna modificare la legge elettorale della Camera per passare dal premio di maggioranza alla lista al premio di maggioranza alla coalizione più votata. Una modifica che dovrebbe fare lo stesso governo Renzi se dovesse vincere il referendum, un altro se lo dovesse perdere.

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Non sono invece giunti segnali d’irritazione, di preoccupazione, di disagio per gli effetti politici dell’indagine giudiziaria romana chiamata “Labirinto”, che sta procurando al governo e alla maggioranza problemi seri, diciamo così, di tenuta politica per la forte esposizione procurata al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Del quale hanno reclamato le dimissioni sinora solo le opposizioni, fatta eccezione per Forza Italia, fedele alla sua tradizione garantista. Ma ciò che per ragioni di coerenza, ed anche di opportunità politica, essendo un bel po’ di alfaniani smaniosi di rientrare nella casa politica dell’ex presidente del Consiglio, non hanno voluto o potuto dire i parlamentari di Forza Italia è uscito dalla penna, o dal computer, del direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Che ha scritto della “parentopoli del ministro Alfano”, vedendolo “scaricato” da Matteo Renzi, nonostante le dichiarazioni di segno opposto del capogruppo del Pd alla Camera, e comunque “azzoppato” perché ben difficilmente il capo del governo potrebbe pagare, dopo tutti i problemi che ha con banche e quant’altro, “anche i conti della famiglia Alfano”.

Ogni allusione al fratello del ministro assunto alle Poste, agli 80 curriculum, o curricula, mandati dal padre ad uno dei fratelli Pizza per cercare posti di lavoro e al Pizza assunto da Alfano nel suo ufficio stampa al Viminale, non è stata naturalmente casuale nell’urticante commento del Giornale.

Di “cricca al Viminale” che “pilotava lavori e nomine” ha scritto e gridato in prima pagina la Repubblica con un bel ritorno di fiamma alle vecchie cronache giudiziarie in cui le posizioni dell’accusa prevalgono su quelle della difesa.

Il ministro Alfano, deciso a non dimettersi, e forse pentito di avere consentito a suo tempo le dimissioni forzate del suo collega di partito e di governo Maurizio Lupi, neppure lui indagato in un’altra inchiesta che gli costò l’importante dicastero delle Infrastrutture, ha subito denunciato un “riuso degli scarti di un’inchiesta”, fatti di intercettazioni telefoniche, “per fini politici”.

Ma poi, probabilmente dopo aver letto meglio le carte ed essersi forse informato dalla postazione di governo che occupa, il ministro dell’Interno ha detto e denunciato qualcosa di più grave che non dovrebbe essere passato inosservato a Mattarella sia come capo dello Stato sia come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. “L’inchiesta è un attacco al governo e a questa classe dirigente dopo un’operazione di accreditamento del Movimento 5 Stelle”, ha detto testualmente Alfano collegando il lavoro dei magistrati, le cronache giudiziarie e la crescita politica dei grillini dopo le elezioni amministrative del mese scorso.

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Alla luce anche delle osservazioni fatte dal ministro dell’Interno, alle quali si vedrà se e come reagirà il capo della Procura di Roma, ripropongo un interrogativo sollevato in altre, analoghe occasioni. I magistrati sono più avventati o sfortunati quando gestiscono indagini delicatissime che esplodono nel bel mezzo di scadenze o di passaggi politici che definire delicati anch’essi sarebbe poco? E’ una domanda galeotta per un sistema giudiziario come il nostro, dove da anni non si riesce incredibilmente a trovare una soluzione al problema dell’uso e della divulgazione delle intercettazioni telefoniche o ambientali disposte dai magistrati e pubblicate come acqua piovuta dal cielo nelle ordinanze di arresto, di perquisizioni o d’altro.

Da questa allucinante situazione nasce l’ancora più allucinante realtà di un ministro che da un’inchiesta giudiziaria esce “non sfiorato penalmente ma coinvolto politicamente”, come ha appena potuto scrivere di Alfano il Corriere della Sera. Al cittadino comune, sprovvisto dei mezzi di difesa di un politico, accade anche di peggio.

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