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Tutti gli ultimi balletti di Matteo Renzi su Italicum, referendum e doppio incarico

Se doveva essere un assaggio, o un’esca, l’effetto è stato buono. Nessuno dei suoi critici o avversari ha praticamente protestato e Matteo Renzi ha potuto risparmiarsi una smentita, per cui ha finito per accreditare la notizia affidata da qualcuno dei suoi amici a Francesco Bei. Che ha attribuito sulla Stampa al presidente del Consiglio un notevole ridimensionamento della minaccia di tornare a casa, cioè di ritirarsi dalla politica, in caso di sconfitta nel referendum sulla riforma costituzionale.

Il proposito di Renzi sarebbe diventato adesso solo quello di dimettersi da presidente del Consiglio, non da segretario del Partito Democratico. Una postazione, quest’ultima, dalla quale l’ex sindaco di Firenze pensa, sempre secondo le intenzioni attribuitegli da Bei, di controllare la situazione, di condizionare il governo di scopo, o comunque lo si vorrà chiamare, per cambiare la legge elettorale e di gestire alla fine, quando si andrà a votare, la preparazione delle liste per il rinnovo, a quel punto, sia della Camera sia del Senato sopravvissuto per la bocciatura della sua trasformazione in un’assemblea di second’ordine, di cento fra consiglieri regionali e sindaci, sprovvista del diritto di concedere o negare la fiducia all’esecutivo.

Certo, se le cose stessero veramente così, cioè se questo fosse davvero il piano B studiato in caso d vittoria del no nel referendum costituzionale, Renzi non ci farebbe una grande figura, viste le sue rigide e clamorose posizioni di partenza. E potrebbe anche rischiare di fare calcoli sbagliati perché non è per niente detto che gli attuali equilibri interni di partito, a lui favorevoli, possano rimanere inalterati dopo un suo ritiro dalla guida del governo.

La storia dei doppi incarichi, di segretario del partito e di presidente del Consiglio, è univoca. Quando se ne perde uno si compromette anche l’altro. Lo provarono sulla loro pelle nella Dc dei tempi d’oro, o d’argento, prima Amintore Fanfani, al quale Renzi assomiglia spesso per ostinazione, e poi Ciriaco De Mita.

Di Fanfani, visto che ci siamo, qualcuno dovrebbe ricordare a Renzi anche una frase che soleva dire, in toscano stretto, con tutte le aspirazioni del caso, di quanti lo sorprendevano deludendolo: “Chi la fa grossa, la hopra”. Lo disse anche a me una volta parlando del suo ormai ex pupillo o delfino Arnaldo Forlani, che aveva osato rivoltarglisi contro. Poi, vedendo che non gradivo, ripiegò sull’immagine, usata successivamente anche in pubblico, di Forlani come “mammoletta” destinata a “sfiorire se colta”. E rimase male non vedendomi ridere neppure a questa battuta.

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E’ da qualche settimana ormai che Renzi alterna passi avanti a passi indietro, sfide a strizzatine d’occhio, chiusure ad aperture.

Il presidente del Consiglio si dice contrario, “manco morto”, ad una modifica della nuova legge elettorale della Camera, considerandola lo strumento più valido per garantire la cosiddetta governabilità, ma lascia ugualmente dire al suo capogruppo al Senato, Luigi Zanda, che se ne potrebbe anche parlare se chi propone cambiamenti è anche in grado di indicare con quale maggioranza approvarli. Né batte ciglio, o quasi, quando il suo socio di maggioranza nel partito, l’agilissimo ministro Dario Franceschini, che non finisce mai una battaglia dalla stessa parte dove l’ha cominciata, sostiene davanti alla direzione che quella legge elettorale, come dicono anche le minoranze, non va più bene perché troppo comoda ai “populisti”, grillini o leghisti che siano. Che in effetti convergono nei ballottaggi per sconfiggere il Pd, come hanno fatto a Roma e Torino il mese scorso.

La stessa data del referendum costituzionale, alla quale Renzi aveva appeso baldanzosamente la propria sorte politica, è diventata un po’ una fisarmonica. Preannunciata dallo stesso presidente del Consiglio in televisione per il 2 ottobre, ospite qualche settimana fa del salotto Rai di Nicola Porro, prima che gli fossero spente definitivamente le luci, ora se ne prospetta, nel silenzio di Palazzo Chigi, lo slittamento a novembre, o addirittura più avanti ancora. Un po’ per allungare la campagna referendaria e piegare gli elettori per stanchezza, un po’ per mettere il Paese “in sicurezza” con la preventiva approvazione della nuova e ineludibile legge finanziaria.

Si è appena arrivati, in particolare sul Corriere della Sera, proprio mentre il pur flemmatico direttore Luciano Fontana esorta il presidente del Consiglio a “cambiare la sua agenda mettendo da parte le sfide continue a se stesso”, ad attribuire a Renzi una mezza disponibilità, se non tutta, al cosiddetto spacchettamento del referendum, anche se è cosa che non può né deve dipendere da lui, ma dalla Cassazione e, in ultima istanza, dalla Corte Costituzionale. Uno spacchettamento che consentirebbe agli elettori di pronunciarsi su diversi aspetti della riforma costituzionale, per cui potrebbero alternarsi sì e no permettendo a tutti di cantare comunque vittoria: anche a lui, a meno di una raffica di no.

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Lo spettacolo è diventato francamente così stucchevole che persino il buon Claudio Cerasa, direttore del Foglio e tifoso onestamente dichiarato di Renzi, lo ha un po’ richiamato all’ordine. E, preoccupato, gli ha consigliato di sottrarsi al logoramento con “effetto arrosticino” perseguito dai suoi furbi e incalliti avversari, esterni e interni al partito, opponendo loro la mossa, diciamo così, del diavolo. Che sarebbe quella di profittare del primo incidente parlamentare, viste anche le difficoltà di vario segno dei suoi alleati centristi, cioè del partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano, costretto a ritrovarsi da qualche giorno nelle cronache politiche e giudiziarie, per dimettersi, aprire la crisi, andare alle elezioni anticipate, con due leggi diverse per la Camera e il Senato, e posticipare ulteriormente il referendum costituzionale.

L’inconveniente di questo scenario sta però al Quirinale, dove Cerasa evidentemente immagina, o sogna, un presidente della Repubblica disposto ad assecondare con lo scioglimento delle Camere una svolta del genere, magari calvo per una repentina perdita di tutti i suoi vaporosi capelli bianchi.

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