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Al ferroviere

L’incidente tra Andria e Corato fa male. Perché ha ucciso. Perché, più di ogni altra cosa, ha colpito l’immaginario di ognuno. Chiunque avrebbe potuto trovarsi a bordo di quel treno. Quello che è capitato fa a pugni con la quotidianità di tutti. È incidente che ha ucciso i morti e ha ucciso i vivi. Chi, nella più tragica delle fatalità, ha commesso l’errore.

Tutti abbiamo avuto il nostro Alfredo, come in Nuovo Cinema Paradiso. Il mio fu Dino, ferroviere. Passavo pomeriggi interi alla stazione e lui mi spiegava tutto. Di come si operavano gli scambi e di com’era gestita la comunicazione con le stazioni limitrofe in corrispondenza della partenza di ogni treno lungo la linea monobinario.
Di tanto in tanto Dino mi diceva: – Micheluzzo chiama tu -. E io chiamavo. Tiravo su la cornetta. Componevo le quattro cifre, quelle del telefono della stazione successiva e, appena di là la voce roca, coltivata a sigarette MS, rispondeva: – Pronto Ispica – io, con la più baritonale delle voci, rispondevo:- Partito -.
Un giorno, il collega della stazione successiva sollevò la questione:- Troppo spesso sento una voce troppo picciridda al telefono – .
Dino non c’era, c’era Don Sipione. Ero preoccupato. Ma Don Sipione, che quella mattina aveva i diavoli acchianati in testa per via di uno scirocco mortale, prese e disse al collega: – U picciotto cà è megghiu di tutti noialtri messi assieme -. E la questione fu chiusa. Quella mattina, specchiandomi sui suoi ray-ban farlocchi, che chissà in quale bancarella aveva comprato, mi vidi con la divisa e i gradi da ferroviere. Così fu.

Il treno ha la prerogativa di essere, prima di tutto, un giocattolo. Espediente narrativo, materia di poesia. Il treno è l’onomatopeico Ciuff Ciuff. È odori: quello del porfido, del gelsomino. Del maleodorante e acre tanfo della massicciata esposta al sole dove finiscono i bisogni passeggeri, pure.

Quant’è bello il lavoro in ferrovia! E non solo. I migliori dopolavoro sono, appunto, i dopolavoro ferroviari. I migliori tennisti da club, non i fighettini che non sanno acchiappare una pallina neanche dopo anni di lezioni di tennis, almeno fino a poco tempo fa, erano tutti ferrovieri.
Sulla Modica – Siracusa, linea da sempre e per sempre monobinario, potevi incontrare il capotreno Giorgio Modica detto “Il Bello”. Finché ti capitava di incrociarlo a bordo di una littorina dove prestava servizio, la cosa peggiore che ti poteva capitare era prendere una multa se ti beccava senza biglietto. Ma se lo incrociavi in qualche torneo di tennis, e non eri ben attrezzato mentalmente, un perentorio due set a zero non te lo toglieva nessuno.

Il personale di terra, capistazione e assistenti, aveva cura della stazione. Don Sipione per dire, prima di essere ferroviere, era contadino e cacciatore. Si prendeva cura delle aiuole. Tutte coltivate. C’era l’orticello e c’erano le rose. Poi, sotto le chiome di un regale pitosforo, i rampicanti di gelsomino.
La fontanella e la campanella formavano il complessino che allietava con un perfetto swing l’attesa dei passeggeri. Questo era la stazione: un set, dove arrivi e partenze potevano colorarsi di un’emozione. Di ogni sentimento.
L’amante e l’amata potevano darsi un bacio dopo aver masticato un fiore di gelsomino. Si poteva rubare una rosa e correre lungo il pezzo di marciapiede con la mano protesa verso il finestrino del treno che sfila via. Le stazioni parevano fatte a posta per immortalare attimi che fanno di un’esistenza, una vita.

Cos’è rimasto oggi di quel mondo oltre al monobinario su cui la peggiore delle canee del pressapochismo si sta scagliando?
Niente. Abbiamo l’Alta Velocità, però. Con le stazioni tutte uguali e sotterranee. Siamo nascosti nel ventre della terra quando partiamo e arriviamo in stazione. Morti e sepolti i nostri attimi fuggenti. A Bologna, per dire, il bacio furtivo all’amata che parte è solo il nome del piano in cui ci si perde.

Le FS, che non vedono l’ora di scrollarsi di dosso i rami secchi della loro rete, hanno trasformato in ruderi le stazioni di un tempo che fu. In edifici vuoti, abbandonati alla vegetazione spontanea come in Jumanji.
E siccome il marketing non può permettersi il tatto, le FS hanno tenuto subito a precisare che la linea dov’è successo l’incidente non è sotto la loro gestione. Tant’é.
È soprattutto ai vivi che hanno commesso l’errore, chiusi nella gattabuia della loro coscienza, che è dedicato questo pezzo.

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