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Vi racconto numeri e segni sviluppisti nel Mezzogiorno

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Nel 2015 nel Mezzogiorno il Pil è cresciuto dell’1%, a fronte dello 0,8% a livello nazionale, e anche l’occupazione è aumentata in un anno di quasi 100mila nuovi posti, consentendo così un miglioramento dello stock complessivo dei suoi occupati. Sono i dati che scaturiscono dalle stime preliminari dell’Istat a livello territoriale e si spiegano secondo alcuni analisti anche con l’effetto rimbalzo perché, dopo le pesanti flessioni negli anni della crisi 2008-2014, la ripresa avvertita nel resto del Paese non poteva tardare ancora nella sua area meridionale.

La spinta alla crescita è stata impressa da un buon andamento dell’agricoltura, pari ad un + 7,3%, da un’apprezzabile performance di commercio, pubblici esercizi, trasporti e telecomunicazioni (+2,6%), e da un primo rilancio delle costruzioni. Il contributo dell’industria in senso stretto, invece, sarebbe stato secondo i rilevatori dell’Istat quasi nullo, mentre il comparto dei servizi finanziari, immobiliari e professionali avrebbe fatto segnare – unico fra quelli considerati – una contrazione dello 0,6%. Si può guardare, dunque, all’insieme di queste analisi con un cauto ottimismo, senza trionfalismi, certo – ben sapendo che ancora molto e a lungo bisognerà lavorare ad ogni livello per un forte e persistente rilancio economico e occupazionale dell’Italia meridionale – ma anche con la consapevolezza che il Sud ha già tutte le risorse che gli consentirebbero di contribuire in misura ancor più significativa alla crescita dell’intero Paese.

Questo quadro di sintesi dell’andamento dell’intera ripartizione meridionale merita infatti, a nostro avviso, alcune riflessioni perché quei dati in realtà dicono molto di più di quanto non si potrebbe pensare. La prima considerazione riguarda la secca smentita che la crescita del Pil nel Sud – più elevata nel 2015 che nel resto del Paese – consente della tesi sostenuta più di tutti dalla Svimez secondo la quale il Mezzogiorno si sarebbe ormai avviato ad un sottosviluppo permanente. Tesi questa viziata da un ‘catastrofismo’ che finisce con l’ignorare invece i tanti punti di forza dell’economia nell’Italia meridionale che sono ormai agganciati a dinamiche nazionali e internazionali e che contribuiscono a trainare lo sviluppo di larga parte del Mezzogiorno.

Intendiamo riferirci a vaste zone di agricoltura intensiva, export oriented, capace di attivare filiere lunghe di trasformazioni agroalimentari e di servizi collegati ad esse, potendo contare su derrate locali, strategiche e di pregio, nel cui impiego sono impegnati numerosi grandi gruppi italiani ed esteri – dalla Barilla alla Ferrero, dalla Granarolo alla Coca Cola, dalla Birra Peroni alla Heineken, da Cremonini alla Princes-Mitsubishi, dalla Unilever alla Antinori, solo per citarne alcuni – cui si affiancano centinaia di piccoli, medi e grandi trasformatori meridionali. L’agroalimentare meridionale, insomma, è già da tempo una componente strategica dell’intero comparto nazionale.

L’altra industria manifatturiera localizzata nell’Italia del Sud vanta a sua volta i settori delle quattro a e cioè acciaio, automotive, aerospazio e abbigliamento e poi con essi estrazioni e raffinazioni petrolifere, chimica di base, farmaceutica, materie plastiche, meccanica pesante, produzione di cemento, cartotecnica, Ict, navalmeccanica, legno-mobilio. Anche il comparto dell’energia ha in loco alcuni dei suoi siti di generazione più potenti d’Italia. L’Istat nelle stime preliminari ha affermato che il contributo dell’industria in senso stretto alla crescita del Pil meridionale è stato quasi irrilevante nel 2015, ma chi scrive ritiene che, al riguardo, sia preferibile attendere valutazioni suffragate da dati più consolidati, perché diversi settori invece – come ad esempio automotive. aerospazio, farmaceutica e agroalimentare con i loro indotti – in alcune regioni come Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia hanno contribuito non poco alle esportazioni di quelle regioni. Il turismo, ovvero l’industria dell’ospitalità ha mostrato ancora una volta come il Mezzogiorno possa giocarsi carte di assoluto rilievo sul mercato delle vacanze a livello internazionale.

Ma la crescita dell’Italia meridionale – ed è la seconda considerazione – è avvenuta grazie anche allo sforzo massiccio compiuto dal Governo, con la collaborazione delle Regioni, per recuperare nell’ultimo biennio i ritardi nell’utilizzo dei fondi della Ue non ancora spesi o impegnati della vecchia programmazione 2007-2013. Hanno dunque avuto ragione Graziano Delrio prima e Claudio de Vincenti dopo – alla guida come Sottosegretari alla Presidenza del Consiglio della cabina di regia a Palazzo Chigi per l’utilizzo delle risorse europee – a spingere sull’acceleratore e a stressare (costruttivamente) tutte le Amministrazioni centrali e locali che non avevano ancora impegnato o speso i fondi ad esse assegnati. Segno questo che quando per l’impiego di quei finanziamenti si lavora con impegno e con tempi serrati i risultati non mancano, anche se poi non bisognerebbe ridursi all’ultimo anno per impiegarli, quando, al contrario, il loro utilizzo effettivo dovrebbe dispiegarsi con regolarità lungo l’intero ciclo di programmazione.

Il Mezzogiorno, dunque, non è condannato affatto al sottosviluppo permanente, ma deve puntare in primo luogo a valorizzare sino in fondo le grandi risorse naturali, tecnologiche, scientifiche e finanziarie di cui già dispone, capaci se ben gestite e amministrate, di assicuragli una crescita sostenuta e di ridurne il divario con il Centro Nord.

Federico PirroUniversità di Bari

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