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Come contrastare jihadismo e Isis. Parla Kim Cragin

Il terrorismo in Europa sta acquisendo forme e dimensioni preoccupanti. I recenti avvenimenti di Nizza, l’attentato di Asbach e l’uccisione del prete in Normandia danno conto di un’escalation e una diversificazione di cui dobbiamo tenere conto per affrontare la minaccia e cercare di prevenire ulteriori stragi. La Francia è nel mirino delle bandiere nere di Isis, ma nessun Paese occidentale può ritenersi completamente al sicuro. Per questo è importante capire il fenomeno della radicalizzazione e mettere in atto politiche e strategie tese a ridurre il numero degli affiliati, sia in termini di dissociazione sia di riduzione delle nuove affiliazioni.

Ieri a Roma era presente Kim Cragin, ricercatrice senior della National Defense University, esperta di terrorismo e fenomeni di radicalizzazione. Ha condotto studi in Iraq, Pakistan, Yemen, Egitto, Indonesia, Filippine e Sri Lanka. Durante un incontro organizzato dal Centro Studi Americani con la collaborazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti, Kim Cragin ha messo in evidenza alcuni punti fondamentali per contrastare la radicalizzazione terroristica. In primo piano il ruolo delle famiglie e dei legami sociali.

Ecco la conversazione con Formiche.net.

Quali sono i motivi che portano gli individui a diventare terroristi?

I fattori sono molti ed è difficile indicarne solo uno. In Siria e Iraq il fatto che l’Isis abbia dichiarato la volontà di creare uno Stato islamico è chiaramente un elemento dominante capace di attirare individui nel progetto. Ma ci sono tanti altri fattori che concorrono. In molti casi i motivi sono prettamente individuali e riguardano sentimenti di isolamento dalla famiglia e dalla comunità. In altri la presenza di incentivi economici contribuiscono al reclutamento di nuovi adepti. Di base, comunque, non dobbiamo dimenticare l’appeal del progetto del califfato.

In che modo si possono prevenire nuove affiliazioni?

Anche qui il discorso è davvero complesso. Ad ogni modo, per un Paese come l’Italia, piuttosto che focalizzare l’attenzione sui singoli individui che diventano terroristi, credo che sia importante analizzare la comunità di riferimento e verificare quali sono i fattori che determinano la costruzione di legami forti con la comunità stessa. Su questa base rafforzare poi i sentimenti di appartenenza. Si tratta di strategie molto efficaci che non tengono conto di singoli fattori ma analizzano le situazioni nel loro complesso, per prevenire la volontà di singole persone di affiliarsi a movimenti terroristi.

Considerando i recenti avvenimenti in Francia e Germania, crede che si stia facendo qualche errore nella lotta al terrorismo?

Nel tempo alcuni errori sono stati certamente commessi, in particolare mi riferisco alla sottovalutazione delle potenzialità della minaccia, del rischio che foreign fighter di rientro potessero commettere attacchi. Alcuni errori di valutazione sono stati fatti anche riguardo al ruolo dei social media, un mezzo attraverso il quale molti individui possono essere incitati e reclutati. Sono errori fatti ma che si sta cercando di correggere. Le Nazioni Unite stanno facendo un lavoro eccellente nel coinvolgere tutti nel contrasto alla radicalizzazione. Si stanno facendo passi avanti.

E per quanto riguarda il ruolo delle moschee e dei leader religiosi?

Chiaramente c’è sempre un ruolo per i leader di una comunità, di qualsiasi tipo essi siano, leader religiosi compresi. Ma non si può mettere sulle spalle della comunità tutto l’onere del contrasto alla radicalizzazione.

Nell’ottica di una futura sconfitta dell’Isis, crede che i foreign fighters potrebbero comunque continuare a rappresentare una minaccia per i Paesi di ritorno?

Un problema residuo potrebbe senz’altro esistere. Storicamente i fatti degli anni 80 e 90 di Afghanistan, Bosnia, e in parte anche Cecenia e Somalia, ci ricordano che, al loro rientro, i foreign fighter dell’epoca sono rimasti in qualche modo coinvolti in attività terroristiche. Questo dovrebbe farci capire che si tratta di un problema da non sottovalutare e che dovremmo attivarci già da ora per strutturare strategie atte ad affrontare questa minaccia.

Alcuni commentatori parlano di scontro di civiltà. Concorda con questa definizione?

Generalmente non sono d’accordo. Tendo a vedere il problema a un livello più macro. Quello che accade in Siria, ad esempio, è diverso rispetto a quanto accade in Libia. Generalizzare gli eventi parlando di scontro di civiltà è un errore.

Quanto è importante la cooperazione tra Paesi per affrontare il problema del terrorismo e della radicalizzazione?

E’ essenziale. I confini sono sempre più insignificanti e i movimenti tra zone di conflitto e altri Paesi stanno facilitando e implementando la minaccia. Più cooperazione garantisce sicuramente un approccio migliore al problema. In tal senso credo che si stiano facendo rilevanti progressi. Molte organizzazioni – come Interpol – o entità legate alle Nazioni Unite stanno spingendo i Paesi verso una maggiore cooperazione. Chiaramente si può fare sempre di più, ma la direzione è quella giusta.

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