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Cosa succederà in caso di vittoria del No al referendum costituzionale

Sergio Mattarella

Di numeri, intesi in senso aritmetico e in senso lato, per tirare le somme della lunga e tesa riunione della direzione del Pd, chiamata a “riflettere” sui cattivi risultati delle elezioni amministrative di giugno, sul lavoro del governo, alle prese con nuovi e ancora più gravi problemi sopraggiunti a quelle elezioni, e sul referendum confermativo della riforma costituzionale, ce ne sono due imprescindibili.

Ci sono innanzitutto quei soli, striminziti otto voti raccolti dall’unico dichiaratamente aspirante segretario del partito, l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza, per legittimare anche politicamente il diritto dei militanti e dirigenti del Pd alla propaganda per il no al referendum costituzionale. Al cui risultato il segretario del partito e presidente del Consiglio ha confermato di volere legare la propria sorte politica.

L’altro numero, in senso scenico, è quello attribuito a Renzi dalle agenzie di stampa e dai giornali, con la solita approssimazione o sommarietà, facendogli dire che in caso di sconfitta referendaria “a casa” non andrà soltanto lui ma anche il Parlamento, colpevole di avere approvato una maggioranza bocciata dagli elettori. E lì tutti a lamentare, con esibizioni dottrinarie, la solita prepotenza del giovane ex sindaco di Firenze. Prepotenza e anche maleducazione istituzionale, spettando solo al presidente della Repubblica, quel Sergio Mattarella da lui peraltro tanto ostinatamente voluto al Quirinale da rompere l’anno scorso il famoso e cosiddetto patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, il diritto costituzionale di sciogliere le Camere. Cioè, di mandarne a casa, appunto, gli eletti, o nominati.

In verità, del Parlamento il presidente del Consiglio ha detto solo che dovrà, a suo avviso, “prendere atto” anch’esso di un’eventuale bocciatura popolare della riforma costituzionale. Ma prendere atto non significa per niente rassegnarsi allo scioglimento e alle elezioni anticipate. Né che il capo dello Stato a quel punto abbia non più il potere, riconosciutogli dalla Costituzione, ma il dovere di sciogliere le Camere meno di tre anni dopo la loro elezione e più di due anni prima della loro scadenza ordinaria.

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Proviamo, per cortesia, a immaginare con il buon senso e la pratica delle crisi di governo lo scenario delle dimissioni di Renzi, e dei suoi ministri, dopo l’eventuale vittoria del no referendario.

Il capo dello Stato apre le abituali consultazioni per sentire le opinioni dei suoi predecessori, dei presidenti delle Camere e soprattutto dei gruppi parlamentari e dei rispettivi partiti. Che a loro volta definiscono al loro interno la linea, a cominciare proprio dal Pd. Cui Renzi, anche se lo volesse, non potrebbe certo tappare la bocca impedendo, per esempio, alla direzione di tornare a riunirsi per riflettere, diciamo così, sulla sconfitta referendaria, come ha potuto e dovuto fare sulla meno grave sconfitta subìta nei Comuni di Roma e Torino.

Ma una riflessione, diciamo così, sullo scenario post-referendario è già stata impostata, o prenotata, come preferite, nella riunione della direzione appena conclusa, pur con quei soli miseri otto voti di apertura al no. E’ stata impostata, o prenotata, da una componente grossa della maggioranza renziana. Che è la corrente del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, non a caso intervenuto personalmente nella discussione. Una corrente che, per quanta importanza abbia voluto dare e voglia ancora dare Renzi alle primarie, è stata decisiva sia per il suo arrivo al vertice del partito sia per il brusco allontanamento di Enrico Letta da Palazzo Chigi per fare posto proprio a lui.

Franceschini, di origini democristiane come Renzi e lo stesso Enrico Letta, mobile, anzi mobilissimo nelle sue iniziative e collocazioni, come sapevano essere i democristiani dei tempi d’oro, ha posto in modo che più esplicito non poteva essere il problema di modificare la nuova legge elettorale, chiamata Italicum e appena entrata in vigore solo per la Camera. Dove il premio di maggioranza è previsto per la lista più votata, mentre Franceschini, spostatosi verso le minoranze del partito, vorrebbe che fosse assegnato ad una coalizione. E questo non per un capriccio, ma nella convinzione, non importa a questo punto se sbagliata o giusta che sia, ma maturata anche nelle elezioni amministrative, che da solo il Pd non possa vincere lo scontro con i populisti, come lui li definisce pensando soprattutto ai grillini ma anche ai leghisti. Che, per quanto ammaccati nelle urne di giugno, non rinunciano all’idea di trainare un nuovo centrodestra, pronti comunque ad aiutare i grillini a prevalere sul Pd se e quando ne avessero l’occasione.

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A questo punto, a parte il problema dei rapporti personali, a proposito dei quali va detto che quelli di Mattarella con Franceschini risultano eccellenti, che cosa pensate che possa o debba fare il capo dello Stato? Come minimo, può essere tentato dal conferimento del solito incarico esplorativo a qualche carica istituzionale, non foss’altro per dare più tempo ai partiti, a cominciare dal Pd, per definire quella che chiamiamo “linea politica”. O, alle strette, se Renzi dovesse impuntarsi dando ragione a quelli che hanno tradotto sui giornali come “ritorno a casa” il suo invito alle Camere a “tenere conto” del no referendario, il presidente della Repubblica potrebbe rinviare alle stesse Camere il governo dimissionario. E voi veramente pensate che la maggioranza parlamentare chiuda la partita chiedendo praticamente al Quirinale le elezioni anticipate? Che, senza una modifica dell’Italicum, si svolgerebbero con regole diverse fra Camera e Senato. Alla Camera con il premio di maggioranza alla lista più votata e al redivivo Senato senza premio di maggioranza, con quel che è rimasto della vecchia legge tagliata dalla Corte Costituzionale, e con l’impossibilità quindi matematica di esprimere al governo una fiducia conforme a quella di Montecitorio.

Via, cerchiamo di essere seri. Non si può onestamente chiedere a Mattarella di impazzire. E permettere agli avidi speculatori internazionali di borsa, nel lungo periodo di una crisi non risolta, di giocare con i titoli italiani di Stato come birilli.

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