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Ecco le 3 buone notizie che fanno gioire Matteo Renzi

Matteo Renzi

A parte il bilancio dell’immane tragedia ferroviaria in Puglia, non certamente ascrivibile a lui, a meno che il solito Fatto Quotidiano non trovi il  modo per rimproverargli anche questo, dopo avergli fatto le pulci pure per l’uso legittimo che fa della villa Pamphilj come seconda residenza del presidente del Consiglio, le cose a Matteo Renzi non sono andate male nelle ultime 24 ore.

Al Senato la legge sui bilanci degli enti locali ha superato la soglia minima della maggioranza assoluta dei voti di cui aveva bisogno. E che sembrava sino a qualche giorno fa in pericolo per il malumore serpeggiante fra le varie anime e sigle dei pur pochi centristi che consentono al presidente del Consiglio di disporre della fiducia ancora necessaria nell’aula di Palazzo Madama.

I “transfughi e reclutati vari”, come Massimo D’Alema nella sua più recente intervista ha definito alfaniani, casiniani, verdiniani e quant’altri fanno parte del governo o lo appoggiano ormai sistematicamente, hanno resistito alla “resipiscenza” raccomandata loro dall’ex presidente del Consiglio. Che li commisera come votati “al martirio” perché il loro destino di “licenziati”, alla “fine del servizio”, sarebbe segnato dalla nuova legge elettorale della Camera nota come Italicum.

Se infatti dovesse rimanere invariato, dopo l’eventuale vittoria di Renzi nel referendum confermativo d’autunno sulla riforma costituzionale, il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione più votata, i centristi sarebbero condannati a tentare il ritorno a Montecitorio chiedendo ospitalità nel listone del centrodestra, facendo miserevole ritorno a casa, ammesso e non concesso che il leghista Matteo Salvini non imponga a Silvio Berlusconi di lasciarli fuori come traditori. O chiedendo ospitalità nel listone di Renzi, cui difficilmente le minoranze del Pd, pur indebolite dall’eventuale vittoria referendaria del presidente del Consiglio, permetterebbero tanto ingombrante generosità, vedendovi la sagoma dell’odiatissmo e temutissimo “Partito della Nazione”.

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Non meno difficile diverrebbe la posizione dei poveri centristi se Renzi, vinto il referendum, ma anche se lo dovesse perdere lasciando Palazzo Chigi e rimanendo segretario del Pd, secondo l’ultima versione dei suoi progetti, accettasse di modificare l’Italicum alla condizione che gli è stata appena attribuita senza provocarne smentite o precisazioni: il passaggio dal premio di maggiorana per la lista al premio di maggioranza per la coalizione in cambio dell’innalzamento della soglia elettorale di accesso ai seggi parlamentari. Che si vorrebbe portare anche per Montecitorio all’8 per cento dei voti ora stabilito per il Senato. Sarebbe per i piccoli partiti un capestro, se non si ricorresse ad uno sconto, e pure consistente, come per il passato, in caso di adesione ad una coalizione.

E’ proprio pensando a tutte queste dinamiche che l’astuto, per quanto rottamato, D’Alema aveva trattato un po’ rudemente i centristi nella sua già ricordata intervista esortandoli appunto alla “resipiscenza”. Che potrebbe produrre effetti buoni per loro solo se tempestiva, precedendo il referendum con una crisi, e non dopo, all’ultimo momento, quando sarà forse per loro impossibile conservare un po’ di potere contrattuale.

In questo senso si può dire, nell’ottica dalemiana, che Alfano e amici, o avversari interni, si sono lasciati scappare l’occasione della legge sui bilanci degli enti locali nell’aula del Senato.

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Un’altra buona notizia per Renzi è un largo superamento delle 500 mila firme da consegnare alla Cassazione da parte dei comitati per il sì referendario alla riforma costituzionale. Il solito Fatto Quotidiano, sempre informato delle vicende interne del Pd da uffici e altre fonti che non fanno sconti a Renzi, ha attribuito il recupero dei ritardi che sembravano fino a qualche giorno fa irrecuperabili all’efficienza e alla generosità politica della potente associazione dei coltivatori diretti. Che da soli avrebbero procurato centomila firme.

Ai comitati promotori del no è andata invece non male ma malissimo, essendosi fermata la raccolta sotto le 300 mila firme, per quanto sforzi abbiano fatto proprio quelli del Fatto Quotidiano per aiutarli con il concorso delle minoranze del Pd, della sinistra vendoliana, dei professoroni, scienziati, giuristi, poeti, scrittori e quant’altri impegnati nella sacra battaglia contro il nemico e potenziale duce fiorentino.

Questa battaglia di numeri fra comitati del sì e del no ha un valore per niente simbolico. Le 580 mila firme del sì consentono, in base alla legge 157 del 1999, al comitato che si può intestare alla fine la raccolta di disporre di 580 mila euro di finanziamento pubblico per la propaganda, appunto, del sì. Una cifra che non è certamente da buttar via, con quello che costano le campagne elettorali.

I sostenitori del no, invece, per quanto convinti di avere chissà quali e quanti buoni argomenti contro Renzi e la sua riforma, rimarranno senza finanziamento pubblico. Dovranno pagarsi di tasca loro la campagna referendaria. E meno male che a promuovere il referendum è bastato, per norma costituzionale, un quinto delle Camere. Se fosse dipeso solo dalla raccolta delle firme popolari, i meno di trecentomila elettori mobilitatisi per chiedere la bocciatura della riforma costituzionale non avrebbero potuto neppure fare arrivare gli italiani alle urne.

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La terza ed ultima notizia buona per Renzi, salvo improbabili sorprese all’ultimo momento, è il fallimento dei tentativi compiuti da più parti di raccogliere le meno di duecento firme di parlamentari necessarie per chiedere alla Cassazione, senza avere tuttavia la certezza di ottenerlo dalla stessa Cassazione e poi dalla Corte Costituzionale, il cosiddetto spacchettamento del referendum costituzionale. Che, diviso in cinque o ancor più numerosi “quesiti”, offrirebbe l’occasione – si è detto e scritto – di togliere alla prova elettorale il carattere “plebiscitario” cercato dal presidente del Consiglio.

Agli avversari sembra proprio che sia rimasta solo la possibilità di spacchettare i regali sotto l’albero di Natale, come ha sarcasticamente detto di recente proprio Renzi prendendo finalmente posizione contro un’ipotesi che avrebbe clamorosamente contraddetto le modalità del referendum, anch’esso costituzionale, di dieci anni fa, quando la sinistra riuscì a far bocciare la riforma approvata in Parlamento dal centrodestra allora guidato da Silvio Berlusconi.

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