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Fare previdenza nell’era delle reti – 7 luglio, Tempio di Adriano ore 14,15-19

CAP tutti insieme

Fare previdenza nell’era delle reti: le nuove sfide della welfare society. Una view sugli scenari del nostro futuro previdenziale, assistenziale e sanitario come persone, professionisti, consumatori e imprese dove si confronteranno nella Conferenza annuale di CONFASSOCIAZIONI, importanti protagonisti di economia, politica, società  (Roma, 7 luglio, Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, ore 14.15-19).

Una Conferenza che vedrà, fra gli altri, attori del parterre decisionale del nostro Paese come Paolo MESSA, Fondatore di Formiche, Francesco BOCCIA, Presidente Commissione Bilancio Camera dei Deputati, Cesare DAMIANO, Presidente Commissione Lavoro Camera Dei Deputati, Andrea MANDELLI, Vice Presidente Commissione Bilancio Senato della Repubblica, Corrado PASSERA, Presidente Italia Unica, Giovanni TOTI, Presidente Regione Liguria, Cosimo Maria FERRI, Sottosegretario Ministero Della Giustizia, Ivan LO BELLO, Presidente Unioncamere, Giovanna MELANDRI, Presidente Human Foundation, Pietro TORRETTA, Presidente UNI, Ente Nazionale di Unificazione.

 Per CONFASSOCIAZIONI si tratta di un tema strategico perché viviamo in un mondo dove il solo modo per essere competitivi è quello di recuperare la visione di lungo periodo. Questo è il problema del nostro attuale sistema previdenziale. Progettato per “stare in piedi” su base intergenerazionale (i giovani pagano la pensione ai più anziani) ha le “ali” dell’orizzonte prospettico tarpate dal crollo demografico generato dal tasso di denatalità del nostro Paese, il peggiore delle nazioni avanzate.

Non che sia una novità. Tutte le serie storiche dicono che la ricchezza è il più grande anticoncezionale che esista. Nonostante la crisi, l’Italia è la terza ricchezza privata del mondo (quasi 10mila miliardi di euro, molti dei quali illiquidi in un sistema immobiliare impiombato da valutazioni dimezzate) per cui tale principio vale per noi come per tanti altri Paesi industrializzati.

Insomma, al di là di tutte le soluzioni (compresa la divisione tra previdenza e assistenza), il crepaccio aperto nella gestione INPS 2012 (-9 mld di euro) è continuato nel 2013 (- 9,2 mld), nel 2014 (-10 mld) e nel 2015 (-11,6 mld) finendo per cumulare una perdita da manovra economica. E senza dimenticare che il CIV, il Comitato di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS stessa, stima ulteriori, importanti perdite anche per i prossimi anni.

E senza dimenticare che il dato di più di 105 mld di patrimonio della Gestione Separata (a fine 2015) racconta una sola storia: con l’esclusione dei lavoratori dipendenti (in parità ma ancora per poco) le professioni a partita Iva contribuiscono a compensare le gestioni in perdita (e le pensioni) di tutti gli altri: artigiani, commercianti e, soprattutto, statali. In sintesi: la Gestione Separata è la “gallina dalle uova d’oro” dell’INPS perché in questo momento paga poche pensioni (versa e paga ufficialmente nel 1998). Ma la pacchia finirà.

Cosa succederà dopo? Domanda legittima, soprattutto dei giovani. In assoluto, le pensioni non sono a rischio perché i buchi generati dal divario tra contributi versati (le entrate) e le prestazioni da erogare (le uscite) verranno sempre coperte dai trasferimenti da parte dello Stato. Insomma, anche in caso di default, le pensioni mancanti verranno pagate da tutti i contribuenti.

Come, in verità, sta già accadendo. Anche se i dati non sono ancora chiari, nel 2015 i trasferimenti dello Stato all’INPS sono stati superiori sia al 2014 (119 miliardi) che al 2013 (112,5 miliardi) con un’ipotesi MEF di 122 miliardi a fine 2016. Rallenta il passo di marcia rispetto agli ultimi 5 anni (effetto della riforma Fornero?) ma nel lungo periodo? In ogni caso, nel lungo periodo, gli orizzonti sono preoccupanti. Stime catastrofiche (anche se da verificare approfonditamente) anticipano addirittura al 2035, nonostante gli effetti della Fornero e i possibili progetti di incorporazione delle casse previdenziali private, le finestre di un possibile dissesto del’istituto di previdenza pubblica.

Ma non basta. La massa dei contributi accertati, ma non incassati dall’INPS dovrebbe arrivare a fine del 2016 a circa 140 miliardi secondo la Commissione di Vigilanza sugli Enti di Previdenza. Sono le “sofferenze” dell’INPS. Come dire: dalle banche all’INPS il problema è sempre lo stesso nel nostro Paese. La Commissione segnala (guarda caso, come per le banche) che l’accantonamento per la copertura delle mancate riscossioni tende a essere insufficiente nel tempo rispetto al trend di crescita delle mancate riscossioni. Non solo. Invita l’Istituto a chiarire e definire, già dal prossimo bilancio, in termini di trasparenza e veridicità delle scritture contabili, l’entità e l’incidenza sul passivo di bilancio del complesso delle entrate contributive non ancora dichiarate formalmente inesigibili.

E questi sono solo i contributi effettivamente accertati. Mancano quelli non accertati, quelli del cosiddetto “nero previdenziale”. Un “mondo di mezzo”, si potrebbe dire, anche perché il mancato versamento dei contributi all’INPS è un reato punito anche penalmente. Non è purtroppo di un deterrente, sia per i mancati versamenti del “nero personale” (tutti i lavori regolati in contanti tra persona e persona che quasi sempre sfuggono ai calcoli Istat) e del “nero stagionale” (quello legato al turismo o ai periodi di raccolta in agricoltura). Un esempio fra i più classici: assunzione a tempo determinato per 4/6 mesi come cameriere durante la stagione estiva. Alla fine, licenziamento e la persona prende per i 6/8 mesi successivi l’indennità di disoccupazione. Nel frattempo, i più volenterosi lavorano in nero per il precedente datore di lavoro o per tutti gli altri settori, a partire da quello edilizio, che navigano volentieri nelle zone d’ombra. Gli altri stanno a casa davanti alla televisione.

Tanto ci pensa l’INPS sia che si tratti di previdenza, sia che si tratti di assistenza. E dietro l’INPS: lo Stato. Cioè tutti noi che paghiamo le tasse. Nel frattempo, si generano almeno gravissimi danni per il Paese. Il primo è a danno del PIL che perde in valore assoluto cifre stratosferiche.  Il secondo danno strategico è sui processi di rivalutazione delle pensioni stesse che, essendo legate alla crescita del PIL, perdono ogni anno una parte della crescita realizzata. L’Istat certifica che il PIL del nostro Paese è cresciuto, nei 10 anni precedenti la crisi (e cioè fino al 2007) dello 0,80% medio. Altro che l’1,5% che l’INPS calcola come coefficiente di rivalutazione per coloro che hanno ricevuto la famosa busta arancione contenente il responso sulla propria futura pensione.

Una stima che ipotizza che lo stipendio dei lavoratori aumenterà per i prossimi 15 anni dell’1,5% su base annua. Ma la domanda è: ci credereste se foste consapevoli che la crescita dei 10 anni precedenti è stata stabilmente fra il 40% e il 50% più bassa? Una sola riflessione: dopo quasi 8 anni di crisi il nostro PIL è in valore reale di circa il 9% al di sotto di quello del 2008. Ed è su questo PIL che si calcola la rivalutazione delle nostre pensioni. Meno cresce il PIL per effetto anche dell’evasione fiscale e previdenziale, meno si rivalutano le pensioni.

Ma è il terzo danno quello più grave e strategico che impatta direttamente la collettività. Perché in un sistema pensionistico a ripartizione come il nostro, l’equità intergenerazionale è data dal fatto che i giovani o, comunque, gli occupati pagano le pensioni ai più anziani. E se questo non succede per effetto anche del nero previdenziale, la differenza va a carico della fiscalità generale e, cioè, delle tasse che pagano tutti i cittadini che onorano le tasse. E non è solo un gioco di parole: i cittadini che pagano l’evasione di quelli che non pagano le tasse sono costretti a pagare anche una parte delle pensioni che non paga chi evade i contributi previdenziali.

Ecco perché la quota di trasferimenti dal bilancio dello Stato all’INPS è in crescendo da anni. Nel 2015, lo Stato ha versato nelle casse dell’Ente di Previdenza circa 101 miliardi rispetto agli 80 del 2009.  Il tutto per contribuire ad una spesa complessiva del nostro Ente Previdenziale pubblico di circa 270 miliardi di euro nel 2015. Una somma comprensiva sia dell’assistenza (ad esempio le pensioni di reversibilità o la cassa integrazione) che delle pensioni vere e proprie il cui importo complessivo è di circa 193 miliardi di euro, di cui 172 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali.

Già possiamo capire una cosa semplice. Spesa totale (circa) 270. Spesa per assistenza (circa) 77. Spesa per pensioni (circa) 193. Copertura delle gestioni previdenziali (circa) 172, Differenza annua a carico della fiscalità generale (le tasse, circa) 101. Differenza sulle pensioni tra quanto si incassa e quanto di paga 21 miliardi di euro. Un ammanco importante che deriva dalle perdite che tutte le gestioni previdenziali (escluse la gestione dei dipendenti e la gestione separata) generano annualmente. Un dato che conferma la stessa INPS quando ci dice che i 173 miliardi di euro erogati nel 2015 non comprendono i trattamenti ex INPDAP (i dipendenti pubblici) ed ex ENPALS (i lavoratori dello spettacolo).

Ecco, intanto, da dove dipende una parte importante del buco. Quasi certamente lo Stato non pagava i contributi previdenziali dei dipendenti pubblici prima del 1994 (anno di creazione dell’INPDAP). Ma la domanda è: adesso li paga? E se li paga perché le statistiche dell’INPS non li considerano? Negli estratti previdenziali dell’INPS, i contributi per i dipendenti pubblici non ci sono. In sintesi, lo Stato non versa i contributi. Certo, l’evasione previdenziale è una componente importate del “nero” del Paese. Ma quello che è paradossale è che sia lo proprio Stato il primo evasore contributivo, anche se solo per mera politica di bilancio. E’ una partita di giro, dicono. Certo, lo potrebbe dire anche il privato. Te li verso solo quando il lavoratore va via (come un tempo il TFR). Ma intanto chi paga le pensioni in un sistema a ripartizione come il nostro?

Ma l’INPDAP è solo la punta dell’iceberg negativo dell’INPS. Come detto, tranne la gestione dei dipendenti (che, agli ultimi dati, è più o meno a pareggio) , tutte le altre gestioni sono in perdita tranne la Gestione Separata che a fine 2015 conta circa 105 miliardi di patrimonio, con un flusso attivo annuo di circa 9 miliardi di euro. Tanti soldi, ma dove vanno a finire? Sempre secondo l’Inps, l’assegno medio mensile dei soggetti iscritti alla Gestione Separata durante tutto il 2015 è stato pari a circa 161 euro. La stessa INPS ci dice che le pensioni erogate nello stesso periodo sono state poco meno di 6mila. Questo vuol dire che 6mila pensioni per 161 euro per 13 mensilità uguale meno di 13 milioni di euro.

E dunque: importo a patrimonio della Gestione Separata 105 miliardi di euro circa. Importo totale di pensioni pagate nell’anno 2015 circa 13 milioni di euro. Patrimonio netto dell’INPS a fine 2015 circa 1,8 miliardi di euro. Differenza, meno 103,3 miliardi di euro a carico della Gestione Separata. Come dire che, se per ipotesi, non esistesse la Gestione Separata, il contributo a carico di tutti noi contribuenti potrebbe essere più del doppio. Altrimenti non si capisce dove finiscano i soldi.

Insomma, le professioni a partita Iva contribuiscono a compensare le gestioni in perdita, e quindi le pensioni di tutti gli altri, artigiani, commercianti e, soprattutto, statali. Diciamolo ancora un volta, la Gestione Separata è la “gallina dalle uova d’oro” dell’INPS perché per ora paga poche pensioni e di piccole dimensioni. Ma cosa succederà quando inizierà a pagare le pensioni che deve effettivamente pagare?

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