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Papa Francesco, l’Islam e i falsi dilemmi sulla guerra a Isis

isis, carlo jean

La conoscenza del nemico, dei suoi punti di debolezza e di forza e di quelli nostri è essenziale in ogni vittoria. Essa è sempre difficile, soprattutto qualora le forze contrapposte sono asimmetriche. Numerose sono le cause del terrorismo. Esse interagiscono fra loro. Politici e media sono portati a semplificare, soprattutto sotto la pressione delle circostanze. Ciascuno pone in rilievo quella che meglio corrisponde ai suoi valori e alla sua visione del mondo. Due degli studiosi che meglio conoscono l’Islam, danno spiegazioni opposte alle radici profonde del terrorismo di matrice islamica. Ognuna comporterebbe strategie diverse per contrastarlo. Secondo Olivier Roy, la radicalizzazione precede l’islamizzazione. Per Gilles Kepel avviene il contrario.

Lo stesso avviene per i rimedi. Per il Cardinale Tauran vale il “dialogo disarmato”, espressione moderna del “porgere l’altra guancia”. Lo stesso pensano coloro per i quali la priorità è di non radicalizzare le masse islamiche, non coinvolgendole nella violenza usata contro i terroristi. Alquanto analoghe dono le affermazioni di coloro che sentenziano che la distruzione dello Stato Islamico non farebbe cessare il terrorismo. Esso è sempre esistito e sempre esisterà in tutte le società pluraliste. Secondo molti, una reazione militare o “cinetica” contro i gangli vitali dello Stato Islamico sarebbe addirittura dannosa. Tale approccio, che attribuisce le cause profonde del terrorismo ai torti che l’Islam ha subito dall’Occidente oppure ai “mercanti di armi e di morte”, oltre che essere errato, è rischioso. Provocherà inevitabilmente un aumento della paura e dell’incertezza, in un Occidente che non è mai stato sicuro come dopo la fine della Guerra Fredda.

Tali interpretazioni sono attizzate da chi ha interesse a farlo. Da politici alla ricerca di consenso. Da molti media che negli attentati terroristici ci sguazzano quasi “allegramente”: Aumentano l’audience e consentono di far sfoggio di buoni sentimenti, come di quello che non si tratta di una guerra di religione, oppure che siano responsabili l’Occidente con la colonizzazione, con l’utilizzo dei mujihaiddin contro l’Armata Rossa in Afghanistan, con la loro tendenza a condurre guerre per procura, per aumentare il loro potere o le loro ricchezze. Sarebbero anche responsabili le dinastie del Golfo, che sostengono lo Stato Islamico contro lo sciismo, da cui si sentono minacciate. Anch’esse sarebbero strumentalizzate dall’Occidente che le arma. A quest’ultimo riguardo la consueta analisi “politicamente corretta” è quasi ridicola. I cacciabombardieri di quinta generazione e le navi sofisticate di produzione occidentale non sono quelle usate dai terroristi a cui basta qualche Kalashnikov, qualche pistola e un po’ d’esplosivo convenzionale o fatto in casa. Le guerre le fanno gli uomini, non le armi. Lo stesso dicasi per il finanziamento dei vari gruppi terroristici. Le charities islamiche forniscono circa il 5% dei fondi necessari soprattutto a quel proto-Stato che è l’IS. Il resto proviene dal contrabbando, dal traffico di esseri umani e di droga, dalle tasse o oboli dei credenti e dai riscatti dei sequestri. La situazione del Califfato è diversa da quella di al-Qaeda, molto più accentrata, almeno fino agli attentati dell’11 settembre 2001. Il primo ha maggiori esigenze. Deve infatti provvedere alle esigenze di un vero e proprio esercito e delle popolazioni che controlla in Iraq e Siria.

Il presidente del COREIS – Jahya Pallavicinimi sembra uno dei pochi che hanno le idee chiare sulla strategia da seguire per contrastare il terrorismo in Occidente. Non bisogna tanto colpire la manovalanza, cioè i terroristi che effettuano gli attentati, pronti a morire per andare nel Paradiso di Allah. Si deve invece prioritariamente colpire il cuore del movimento, cioè il centro decisionale e comunicativo dello Stato Islamico, com’è stato fatto con al-Qaeda. Esso è più vulnerabili delle reti immerse nelle nostre società. Una strategia efficace non può essere solo difensiva. Anche la componente offensiva è essenziale. Essa va rivolta alla testa della “piovra”, più che ai suoi tentacoli.

L’attribuzione degli attentati ad isolati “lupi solitari”, come quello di Nizza o quelli in Baviera, e a “terroristi fai da te”, come oggi sono portati a fare politici e media immediatamente ogni attentato, è sistematicamente dimostrata falsa dalle indagini successive. Esse scoprono che l’attentatore solitario ha ottenuto l’appoggio di una rete, collegata più o meno direttamente al centro dello jihadismo internazionale. Si sa dove quest’ultimo si trova. Va distrutto. La sua eliminazione non eliminerà il terrorismo. Gli potrebbe però dare un colpo più decisivo di quello ottenibile con l’eliminazione di qualche operativo, cellula o rete. La colpa maggiore dell’Occidente, consiste proprio nella sua riluttanza a colpire con tutta la potenza di cui dispone lo Stato Islamico, così come fu fatto con al-Qaeda.

Questo non esclude la necessità di aumentare l’efficacia delle misure difensive e, in primo luogo, quelle di cercare di separare la massa dei musulmani dalle sette radicali, potenzialmente terroriste. La “conquista delle menti e dei cuori”, va estesa a quelle delle anime”. Solo i capi religiosi islamici possono farlo. Il resto, come il dialogo interreligioso è folclore. Una modernizzazione dell’Islam può essere fatta solo dagli islamici.

Comunque i radicalizzati riterranno apostati chi tenta di dare ai testi sacri un’interpretazione diversa dalla loro. Inoltre un dialogo essere “disarmato”, come vorrebbero molte “anime belle”. Per fare la pace occorre essere in due. Per la guerra ne basta uno.

Una delle caratteristiche della strategia usata dal terrorismo di radice islamista è la dissimulazione. L’efficacia delle manifestazioni di massa dei musulmani – ad esempio la loro partecipazione alla messa, che tanta retorica sta producendo in tutto l’Occidente – va valutata realisticamente. E’ utile per tranquillizzare le opinioni pubbliche occidentali. Rischia di far sorridere i potenziali terroristi.

Se quella fra terrorismo e anti-terrorismo non è una guerra di religione, come dice Papa Francesco, certamente lo è contro una setta religiosa, basata su una sua lettura dei testi sacri e che vuole imporre le sue visioni nell’Islam. Il presidente egiziano al-Sisi e lo sceicco dell’Università Al-Ahzar lo hanno capito. Dovrebbero capirlo anche i capi politici e religiosi dell’Occidente. Con il “buonismo” del dialogo interreligioso e con miti quali quello dei “lupi solitari” (ottima giustificazione per le forze di sicurezza per nascondere i loro insuccessi) si rischia solo di fare il gioco del terrorismo. Se una decisa azione militare contro il Califfato non può debellare da sola il terrorismo, non lo può neppure il ripudio all’azione armata contro i “generali” del terrorismo, che, a differenza dei suoi manovali, hanno ben poca voglia di morire per andare nel Paradiso di Allah. A ogni rivendicazione di attentati dei “soldati del Califfo” dovrebbe in sostanza corrispondere la reazione più dura possibile sulle sue strutture di comando e comunicative. In mancanza di esse, si continuerà a “girare a vuoto”. Si provocherà anche la delegittimazione delle impotenti democrazie occidentali, sostenendo crescenti costi per misure difensive che comunque potranno essere “bucate” e che ridurranno le libertà personali e i diritti civili, basi della nostra civiltà.

Abbandoniamo l’illusione che i componenti delle sette pan-jihadiste possano essere convertiti o de-radicalizzati. Abbandoniamo anche quella che l’Occidente possa essere amato. Non lo sarà mai, non per quello che fa, ma per quello che è. Può solo essere temuto. Così facendo otterrà la stima di molti musulmani, eviterà di ingrossare le fila dei movimenti pan-jihadisti e – a parer mio fatto ancora più importante – eviterà il collasso della legittimità delle nostre istituzioni di democrazia liberale.

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