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Psicopatologia dei tatuati

Il tatuaggio è l’uomo. Che dai primordi della storia sino a oggi si è sempre tatuato, in tutti i continenti e le civiltà. Ne abbiamo trovato in mummie di antichissime civiltà (Egitto, Siberia) e la stessa parola ci viene dalle antiche culture della Polinesia (tatau).

Vi sono dei momenti forti nella vita dell’uomo (nascita, età adulta, matrimonio, menopausa, funerale) in cui occorre mostrare, con atti cruenti e dolorosi come circoncisione, clitoridectomia, scarnificazione, mutilazione e tatuaggi, che qualcosa è cambiato e l’uomo non è più quello di prima.

Le grandi religioni monoteiste hanno cercato di frenare l’uso dei tatuaggi, a partire dalla Bibbia (Lev. 19, 28). Sia il cristianesimo che l’islamismo vietano quelli permanenti, pur consentendo piccole pitture temporanee per motivi rituali. In tutte le società “sacrali”, l’uso del tatuaggio, anche se non si estinse, fu limitato fortemente, in India come in Cina.

In Europa esso ebbe un revival dopo la scoperta dell’America, dove gli indigeni molto usavano questa pratica. Ma rimase pur sempre un’usanza limitata. Fra Ottocento e Novecento divenne testimonianza di potenza familiare e professionale: Winston Churchill aveva un’áncora disegnata sull’avanbraccio e Franklin Delano Roosevelt portava inciso sul petto l’emblema araldico della sua famiglia.

Il tatuaggio fa parte dell’immaginario collettivo dell’uomo. Lo definisce e gli attribuisce un’identità (talvolta anche negativa, come nei simboli delle società criminali).

Ma nessuna epoca aveva assistito a una sua diffusione massiccia e in continuo aumento come la nostra, a partire dalla seconda metà del Novecento, quando i miti vetusti ed efficientisti del moderno cedono a quelli immaginifici e ludici del postmoderno. Cioè a partire da quel ritorno al pensiero selvaggio e al dionisiaco, che esplose con la contestazione culturale in occidente negli anni Sessanta.

Oggi la maggiore diffusione del tatuaggio riguarda personaggi pubblici noti dal video: sportivi, cantanti, attori, che spesso si ricoprono di segni in tutto il corpo. Oppure li situano in luoghi preziosi e concupiti, come la farfalletta esibita a Sanremo da Belen Rodriguez, incisa nel posto giusto.

Un’invenzione geniale, intuita subito da un esperto del video come Berlusconi, che di spille-farfallette ne commissionò e regalò decine.

Ma si fanno tatuare persone di ogni condizione sociale. Non di rado marchiandosi con il tatuaggio del divo idolatrato.

A Napoli migliaia di giovani mostravano il tatuaggio con il gol in rovesciata di Higuain; ora, dopo il tradimento del bomber, si trovano nei guai, vogliono cavarlo, purtroppo non è facile. Ma Napoli è tutta cuore: e numerosi laboratori di “tattoo” si sono offerti per toglierli gratuitamente. In ogni caso è nata una redditizia industria culturale: in ogni città abbiamo decine di laboratori, non di rado di alta perfezione estetica. Il budget complessivo di questa attività è rilevante. Esso riguarda oltre al tatuaggio il body piercing, anch’esso diffuso a molte parti del corpo (labbro, lingua, naso, orecchie, seno, ombelico, pene, vagina).

L’uomo non può vivere senza un’identità. Per secoli l’ha trovata nelle istituzioni sociali: famiglia, religione, scuola, esercito, corporazione professionale.

Oggi, mentre vive dentro un insuperabile narcisismo, si sente isolato e spersonalizzato, cerca un’identità e una divisa: quelle che il mercato gli offre. Il costume, tipico delle società tradizionali, è stato sepolto, come ha mostrato Simmel, dalla moda, con il suo paradossale mix di novità vistosa e conformità rassicurante (tutti diversi e tutti uguali).

Lo stesso corpo mostra di essere qualcosa con i tatuaggi, ma anche con il piercing, i colori selvaggi dei capelli, la divisa militare o da straccione, l’accostamento irriverente di abiti un tempo incompatibili (jeans e visone), tutto serve a conquistare, con la fantasia e l’innovazione, un’identità perduta. E a mostrarla.

Anche il revival del tatuaggio è una riprova che vi sono nell’inconscio collettivo (Jung) degli archetipi religiosi perenni che l’uomo di ogni epoca ha bisogno di testimoniare. Per millenni il tatuaggio e il piercing sono stati usanze sacre, collegate ai riti, soprattutto quelli di passaggio (Van Gennep).

Anche nella nostra società secolarizzata essi non solo non scompaiono, ma riemergono potenti, sia pure nella forma di un “camuffamento” e di una “degradazione” del mito (Eliade). Il sacro è divenuto consumo, il soprannaturale quotidianità, il rito industria culturale, il religioso gioco e divertimento.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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