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Cosa farebbe il Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi?

Luigi Di Maio

Immaginiamo che Luigi Di Maio sia al posto di Matteo Renzi. E con un pantografo proiettiamo ciò che avviene a Torino o a Roma sul piano nazionale. Esercizio difficile. Due diverse filosofie. Due diversi modi d’intendere la funzione di governo. A Torino il vecchio gioco della doppiezza: tante concessioni verbali ai miti del movimento. Ma una sostanziale continuità dell’azione amministrativa, rispetto alle vecchie Giunte. Almeno fino ad oggi. Domani si vedrà.

Nel caos romano, emergono invece tutte le contraddizioni di quell’essere né carne né pesce, che è la cifra vera del grillismo. Dovesse prevalere questa seconda linea, i problemi sorgerebbero già all’indomani del giuramento, nelle mani del Presidente della Repubblica. Carica del segretario generale di Palazzo Chigi. Quale dovrebbe essere la sua retribuzione? Se si trattasse di un magistrato, varrebbe il principio della contiguità. Tanto prendeva prima, tanto prende ora. Ma se si trattasse di un qualsiasi altro dirigente pubblico, quale sarebbe la regola da seguire? Soprattutto chi deciderebbe? Il Consiglio dei ministri, secondo le disposizioni di legge, o la “rete” con le sue procedure insondabili? Costringendo il Primo a tornare sui suoi passi.

Si può sorridere del grande “scandalo” che queste vicende hanno sollevato, a Roma, all’interno del movimento. Interventi di fuoco. Decine di “like” a favore dei più intransigenti. Appelli per il rispetto del “contratto” sottoscritto con la Casaleggio & C. E pollice verso nei confronti di coloro che avevano contaminato la purezza degli ideali. Ma episodi del genere sono la spia di problemi ben più sostanziosi.

Se tutto ciò accade per le questioni di minor rilievo, immaginiamoci per il resto. L’incontro sulla Portaerei Garibaldi, tra Renzi, Merkel e Hollande, non vi sarebbe stato. Non per dissenso sul merito dell’operazione. Ma solo perché costava troppo. Critiche puntuali de “Il fatto quotidiano”. Sarebbe stata allestita una video conferenza in streaming.

E tutto finiva lì. Anzi nemmeno cominciava a causa delle prevedibili riserve delle altre Cancellerie.

Cosa ci dicono questi episodi? Che se Di Maio vuole davvero rappresentare un’alternativa, il Movimento deve crescere. E non tanto e non solo sul piano dei consensi. Quanto su quello culturale. Deve cioè abbandonare gli slogan semplificati e misurarsi con il tempo presente e le sue contraddizioni. Obiettivi tra loro inconciliabili? Un movimento di protesta può trasformarsi in un partito di governo? Forse. Ma deve abbandonare le fumisterie rivoluzionarie. La prospettiva “di aprire il Parlamento come una scatola di tonno” e scoprire le regole della democrazia. Dove si governa in nome e per conto del popolo tutto e non della cerchia dei militanti abbarbicati su una “rete”. Che è fin troppo facile manipolare.

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