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Come (non) procede il progetto di una difesa comune europea. Parla Politi

Negli ultimi giorni si sta parlando molto di difesa comune europea. Un progetto politico nato immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale con il Trattato di Bruxelles e mai giunto a una reale concretizzazione. Alcuni passi avanti sono stati fatti, ma la realtà ci parla di un’Europa che dichiara ma non firma.

In un’intervista rilasciata a Defense News il generale Vincenzo Camporini afferma che l’uscita della Gran Bretagna dal progetto europeo segna un momento importante per lo sviluppo di una difesa comune: “L’attitudine britannica è sempre stata una scusa per gli altri Paesi. Ora la scusa non esiste più. Chi è pronto per andare avanti? Credo che la Germania possa avere la volontà. Ho qualche dubbio sulla Francia a causa del suo deterrente nucleare. E’ una questione politica davvero delicata”.

Formiche.net ha affrontato questo tema con l’analista politico e strategico Alessandro Politi.

Quando a Ventotene i tre leader europei hanno parlato di rafforzare la difesa comune europea, cosa hanno voluto intendere?

Per ora ritengo che sia solo l’annuncio di un intento. Ci saranno stati anche dei dossier preparati, ma vedremo nel giro di tre mesi se veramente c’è qualcosa di concreto. E’ significativo che questo vertice non abbia avuto nemmeno una dichiarazione finale ma solo conferenze stampa dal valore molto relativo.

Cosa pensa di una difesa comune europea?

Credo molto semplicemente che sia indispensabile, quali che siano le sensibilità nazionali. Questo perché i singoli Stati sono in condizione da non potersi permettere strumenti nazionali realmente efficaci. Basta vedere cosa è successo nell’ultima guerra di Libia, quando persino Francia e Gran Bretagna hanno dovuto chiedere aiuto agli Usa per rifornirsi di bombe. Questo fa capire che c’è dietro una debolezza logistica molto forte. La verità è che non si spende abbastanza perché non c’è abbastanza domanda aggregata.

Che significa in concreto?

Significa che non si possono fare ordinativi spezzettati per dieci paesi diversi. Ci vuole un unico ordinativo di tipo europeo, che è poi proprio quello che fanno gli americani e ciò che permette loro di comprare molto di più a parità di costo.

Si tratta di quindi di razionalizzare la spesa?

Sì, ma la spesa si razionalizza solo quando si decide che bisogna prendere un articolo e non 24mila. Partirei quindi da un dato strutturale. Si tratta di un processo dimostrato persino dagli americani, che hanno sostituito 16 diversi aerei da combattimento con uno solo. Nemmeno loro sono capaci di mantenere così tante dotazioni.

Un percorso non semplice.

Certo, questo tocca interessi concreti industriali. Ma siamo a un punto in cui se continuiamo così la spesa per costo unitario sarà sempre più alta e sempre meno efficace. Paradossalmente l’uscita, per ora, della Gran Bretagna dall’Ue facilita, in linea di principio, questo tipo di accordi. E’ pur vero che molti progetti importanti sono stati fatti proprio con i britannici, ma siamo ormai ad un punto di non ritorno.

A livello operativo cosa bisognerebbe fare?

Come misura temporanea, per guadagnare tempo e per fare delle cose insieme, è ora che si cominci a dare concretezza a progetti come gli Headline goal (progetto nato per dotare l’Ue di uno strumento militare comune di reazione rapida; sono due gli Healdline goal identificati, quello del 2004 e quello del 2010, ndr) e, soprattutto i battlegroup (gruppi da combattimento multinazionali, ndr). Prendere la decisione per cui d’ora in avanti le missioni di pace in ambito Onu vengono fatte da battlegroup europei sarebbe molto significativo.

Crede che sia possibile un accordo politico capace di attivare dotazioni unitarie?

Parlare di dotazioni unitarie significa fare approvvigionamenti in comune e secondo me le resistenze sono ancora molto forti. Anche perché onestamente i vari leader europei sono molto deboli. Il più forte è Angela Merkel e già trema per le prossime elezioni. Non è perciò realistico. Ma prendere la decisione per cui d’ora in avanti le missioni congiunte si fanno con questo sistema, sarebbe già una grossissima decisione. Ma a Ventotene non se n’è affatto parlato.

Perché?

In quell’occasione non si era pronti a decidere nulla a causa della debolezza delle rispettive posizioni politiche nazionali. Il calibro dei leader di certo non aiuta. Comunque, questo tipo di decisioni, se vogliono essere realmente europee, vanno politicamente preparate per avere il consenso degli altri 27 paesi.

Parla quindi di un progetto unitario escludendo a priori la possibilità di un’Europa a due velocità nel campo della difesa?

Il problema è che in Europa su determinati temi non si può votare, ma bisogna arrivare con una decisione unanime. Si può anche fare un metodo Schengen in cui si inizia con alcuni e poi via via ci si aggrega, ma bisogna vedere se oggi, con forti tensioni all’interno della costruzione europea, questo è possibile.

Un progetto di difesa comune europea come si inserirebbe nel contesto Nato?

I veti sono ormai caduti, soprattutto da parte Usa. Gli statunitensi pensano solo all’efficacia e alla capacità d’azione. Chiaro che poi si deve procedere con gli opportuni accordi istituzionali tra Nato e Ue, attività che ancora manca, considerato il peso delle burocrazie, ognuna gelosa delle proprie competenze. Ma oggi il problema non riguarda più il timore di un eventuale indebolimento della Nato a causa di un rafforzamento dell’Ue. Anche i francesi non sono più quelli di una volta, quando pretendevano che dietro la difesa europea ci fossero i colori francesi.

Siamo quindi davanti a un nuovo scenario?

Siamo in uno scenario in cui non facendo nulla – e questo è il motivo per cui la difesa europea è importante –, si favoriscono le posizioni di chi dice che la Nato ormai vada rottamata.

Cosa pensa delle voci che parlano di una possibile fusione tra Leonardo-Finmeccanica e Airbus?

Credo che le dichiarazioni sono interessanti ma è la firma dei contratti e l’attività di fusione quello che conta. Vorrei far notare che si stava facendo la stessa cosa già nel 2001. Sono passati 15 anni e non s’è visto nulla.

Crede che questo trend sia una reazione alla Brexit?

Più che reazione alla Brexit si tratta di trarre le conclusioni. Il voto popolare inglese è stato consultivo, per cui il governo britannico è pienamente responsabile dell’interpretazione politica che dà di questo voto. Non c’è nessun obbligo legale che costringa i britannici a uscire. Quindi l’interpretazione o è pragmatica o dogmatica. Il governo britannico ha deciso di darne un’interpretazione dogmatica. Ma a questo punto il governo può vedere con i suoi occhi che gli altri partner europei ballano con chi c’è. Purtroppo i nostri amici britannici stanno mettendo la testa sotto la sabbia.

E chi ci rimette?

I governanti britannici hanno deciso di non essere più presenti nel processo di unione europea tagliandosi un piede. In un mondo interdipendente, chi ci rimette però siamo anche noi. Da un punto di vista industriale la notizia di contatti Airbus-Leonardo è un ballon d’essai, staremo a vedere quello che succede.

Pensando alle elezioni Usa, crede che il risultato potrà avere delle sostanziali conseguenze in Europa in termini di industria e politica della difesa?

Stimo che un conto è quello che si dice in campagna elettorale e un conto quello che si fa. In termini industriali credo che la faccenda sia più semplice, perché c’è una questione prettamente di business.

A cosa si riferisce?

Oggi il più rilevante programma transatlantico è quello che riguarda l’F-35. Bisogna vedere quanto è finanziariamente sostenibile. Noi italiani abbiamo ridotto già gli ordinativi e penso che anche altri saranno costretti a guardare con attenzione come spendono i soldi. Non è un problema di aereo, ma di finanza. Questo vale anche per gli americani, che hanno un deficit di bilancio spaventoso che prima o poi dovranno affrontare. Domani bisognerà capire quale sarà il pilastro europeo di un mercato transatlantico della difesa.

Al di là degli accordi industriali e delle dotazioni militari, com’è possibile raggiungere una visione unitaria europea in relazione ai principali dossier politici internazionali (Libia, Siria, Ucraina)?

Sono i quattro/cinque paesi più grandi dell’Europa che hanno la maggiore responsabilità dell’inefficacia dell’istituzione. O questi paesi capiscono che non possono più pretendere di avere obiettivi nazionali senza pensare a un bene comune europeo oppure non riusciranno a raggiungere neanche i propri obiettivi nazionali. La guerra in Libia tanto dimenticata è la chiara dimostrazione che, quando si è divisi, nemmeno chi ha più iniziativa raggiunge i suoi obiettivi.

E’ arrivato il momento di mettere da parte gli Stati nazionali?

Finora vedo che gli Stati nazionali vengono smantellati ma non viene creata una struttura capace di garantire quello che essi avevano il compito di garantire: welfare, istruzione, ricerca, grandi infrastrutture… O c’è una dimensione politica europea che funziona, oppure no. Del resto gli Stati nazionali in Europa già dopo la seconda guerra mondiale non potevano più garantire la propria difesa e sicurezza; nemmeno quando avevano l’arma nucleare. Senza la Nato i deterrenti di Francia e del Regno Unito sarebbero stati molto più discutibili. C’è bisogno non più di segnali ma di cose concrete.

Si aspetta quindi qualche firma?

Firma seguita da atti.

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