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Chi vuole azzoppare il modello italiano del credito?

Le banche sono rientrate pienamente nel dibattito economico e politico così come, quello dell’Europa, soprattutto in seguito al referendum della Gran Bretagna che ha sancito la Brexit, è tornato ad essere un tema di grande attualità. Banche ed Europa due realtà, due dimensioni, due entità tra loro poco omogenee dominano le pagine dei giornali, sono temi di discussione largamente dibattuti. Entrambi, sono contraddistinti e, tra loro legati, dalla profonda crisi che, non da oggi, attraversano. Quasi del tutto assente, in questa dialettica tra economisti e politici, è il tema della democrazia. La crisi dell’Europa è frutto di un deficit o di un eccesso di democrazia? E, la stessa domanda, parallelamente, andrebbe posta anche per le banche e per le difficoltà che il sistema creditizio incontra. In realtà, il tema andrebbe allargato alla drammatica crisi di civiltà che il mondo occidentale sta attraversando. La democrazia, quella che abbiamo conosciuto dal Secondo dopoguerra, è ancora oggi un valore indiscutibile? Bisogna avere il coraggio di porsi questa domanda e tentare di dare una risposta fuori da ogni ipocrisia.

Con la fine dello scorso millennio, abbiamo assistito ad un mutamento radicale ed estremamente veloce del panorama economico. La globalizzazione ha ridotto drasticamente la forza della politica, dei parlamenti e dei governi in rapporto a quella dei mercati. È diminuita, se non scomparsa, la capacità di gestire i mercati finanziari che si muovono sempre più autonomamente e a velocità impensabili solo fino ad un decennio fa e di certo, di gran lunga maggiore di quella con la quale si muove l’economia reale. Se la velocità è il nuovo totem, la politica e quindi la democrazia, con i suoi tempi, è sempre più sentita come un inutile, quanto costoso, orpello.

Il discorso non si differenzia nel mondo bancario. Abbandonata del tutto la sensibilità che considerava il ruolo di banche e finanze troppo strategico e delicato per lasciarle nelle mani del libero rapporto tra domanda ed offerta di denaro, tramontata l’idea di funzione pubblica di questo settore, che considerava la delicatezza e la centralità nell’economia del risparmio delle famiglie e delle imprese, è facile arrivare alle convinzioni, oggi dominanti, che intrecciano ideologia del mercato unico e ideologia neo manageriale per le quali le banche, seppur con qualche vincolo in più – che spesso, paradossalmente, ne riduce fortemente le potenzialità – non sono altro che imprese come tutte le altre il cui unico scopo è quello di massimizzare il profitto e come tutte le altre vanno gestite, con le stesse tecniche, gli stessi strumenti. Ecco, dunque, facilmente spiegata la tesi di chi continua a sostenere che la causa delle difficoltà delle banche italiane, sia dovuta ad una tipologia di governance ormai superata, a dimensioni eccessivamente ridotte, ad una eccessiva frammentazione degli intermediari sul territorio. Di contro, sempre secondo queste tesi dominanti ma mai dimostrate, la risoluzione alle crisi sarebbe nel modello della grande banca internazionale, dove ciò che contano, non sono certo i risparmiatori o le famiglie o gli imprenditori, ma il solo capitale. Insomma, anche in questo caso, la democrazia non solo non garantisce la stabilità del sistema ma è, essa stessa, causa di crisi e ostacolo al funzionamento delle più appropriate terapie.

Nel 2013, il colosso finanziario statunitense Jp Morgan, senza ipocrisia, ma con estrema lucidità, scrisse, in un rapporto ufficiale, che il più grande ostacolo alla diffusione delle politiche liberiste di austerity in Europa sono le Carte costituzionali nate dalla resistenza e dall’antifascismo che impediscono le necessarie riforme strutturali. In questo rapporto, analizzando le difficoltà di integrazione degli Stati nell’Eurozona,  si arriva a sostenere che “ […] quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che i limiti intrinseci avessero natura prettamente economica, con il tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica […]  e i sistemi politici […] presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’aera europea”. Il rapporto di Jp Morgan ha il merito di rendere chiara e finalmente esplicita la vera strategia della finanza mondiale: la dismissione delle Costituzioni scritte all’indomani della Seconda guerra mondiale e delle tutele che esse garantiscono per potersi imporre nell’Europa.

Siamo convinti, esattamente del contrario. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero politico, per mancanza di democrazia. Il sistema bancario, quello nazionale come quello europeo, ha bisogno di più democrazia finanziaria, una democrazia che continua ad essere, un valore assoluto. La governance non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ma al contrario è quanto mai necessario, coinvolgere, oggi più che in passato, cittadini, risparmiatori, imprenditori, territori e comunità identificati, fino a poco tempo fa, come i veri azionisti di riferimento delle banche del territorio.  Soltanto una maggiore democrazia, un maggior coinvolgimento potrà salvare l’economia reale, la coesione sociale, l’unità dell’Europa e la nostra società occidentale. Continuiamo a pensare che, in una società in cui tendono ad aumentare le disuguaglianze e in cui i cittadini non dispongono di una reale capacità di scelta, non potremmo avere una democrazia sostanziale finché non saranno stati sciolti i nodi della democrazia economica. La democrazia, almeno per noi, continua ad essere  un valore assoluto, l’ossigeno di quello che una volta era il “bene comune”.

 

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