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Ecco le vere sfide di Renzi e Boschi sul referendum costituzionale

Maria Elena Boschi

Come slogan, bisogna ammetterlo, sembra eccellente: “Il referendum degli italiani”. Non importa se a coniarlo sia stato Matteo Renzi in persona o il comitato referendario del sì alla riforma costituzionale, che lo ha diffuso con un tweet festeggiando un altro sì: quello della Corte di Cassazione alla regolarità di 550.000 firme ed oltre raccolte, per cui lo stesso comitato si è guadagnato il diritto ad un finanziamento di più di mezzo milione di euro per le spese già effettuate e da sostenere ancora per la propaganda. Il comitato referendario del no invece, essendosi fermato a circa 300 mila firme, contro le almeno 500.000 necessarie, nonostante gli avversari di Renzi e della sua riforma sembrino tantissimi, sia pure di colori diversi sino alla confusione e al pasticcio, parte adesso svantaggiato anche per la mancanza di fondi pubblici da spendere o di rimborsi da rivendicare.

Lo slogan, dicevo, è eccellente. E meritevole è stata anche la decisione della Corte di Cassazione, che avevo qui auspicato senza molta convinzione, di non aspettare l’ultimo giorno utile per pronunciarsi sulle firme e dare via libera alle procedure successive per l’indizione del referendum. Ultimo giorno che non sarebbe stato il 15 agosto ma il 16, essendo quello precedente un giorno di festa, con gli uffici rigorosamente chiusi, a cominciare da quelli giudiziari.

Lo sconto dei pur soltanto otto giorni fatto dalla Cassazione alle attese dei cittadini e alle autorità preposte alle procedure successive ha consentito peraltro di scongiurare il rischio, sia pure sulla carta, di mandare alle urne gli italiani sulla riforma costituzionale di Renzi la domenica di Natale di questo 2016.

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Peccato che ora questo benedetto referendum degli italiani, di cui si può ormai scrivere senza più le virgolette, come ha fatto su tutta la prima pagina il giornale più o meno ufficiale del Pd, possa o addirittura debba rimanere sospeso per aria, secondo la legge, 60 giorni per il decreto d’indizione e altri 70, per quanto accorciabili di 20, per la data effettiva del voto. Si può o deve aspettare, quindi, fatte le somme, dai 110 ai 130 giorni: poco meno o poco più di quattro mesi.

Non c’è fretta, insomma, per quanto il nome dato a questo referendum –degli italiani- faccia pensare a qualcosa che non si vede l’ora di fare, un’occasione imperdibile, un crocevia da superare una volta per tutte.

In effetti, la fretta sembra giustificata dalla posta in gioco messa da tutti in questa partita referendaria. La vittoria del sì farebbe uscire finalmente l’Italia, come va dicendo in giro, instancabile, la graziosa ministra Maria Elena Boschi, da settant’anni di instabilità, rendendo non solo più duraturi i governi ma anche più rapido ed economico il funzionamento del Parlamento. Si passerebbe insomma dalla notte al giorno, dopo tanti tentativi di riforma falliti, o dopo una quarantina di modifiche –rigorosamente contate con aria beffarda dal solito Massimo D’Alema per contestare i meriti riformatori vantati dal suo nemico Renzi- rivelatesi evidentemente di poco conto, o addirittura controproducenti. Come indubbiamente è stata – e D’Alema ha dovuto riconoscere- la riforma del titolo quinto della Costituzione, riguardante le competenze regionali, fatta in tutta fretta, e a maggioranza striminzita, dal cosiddetto centrosinistra ulivista nel 2001, nel tentativo fallito di accontentare la Lega di Umberto Bossi ed evitarne il ritorno all’alleanza con Silvio Berlusconi e la conseguente vittoria elettorale. Un tentativo politico pagato caramente anche sul piano istituzionale con una confusione indicibile di poteri tra lo Stato e le regioni, e un’enorme quantità di ricorsi finiti davanti alla Corte Costituzionale, rallentandone l’azione.

Sul piatto del no nella bilancia referendaria ci sono la bocciatura, naturalmente, di una riforma per tante ragioni di merito, diciamo così, non condivisa e quindi contrastata, ma anche la sconfitta del governo e la crisi, visto l’annuncio iniziale dello stesso Renzi di dimettersi in questo caso, anzi di “tornare a casa”, nella sua Rignano d’Arno. Poi, in verità, il presidente del Consiglio, spinto un po’ dai sondaggi, un po’ dai consigli di autorevoli amici, fra i quali il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e, più discretamente, il presidente in carica Sergio Mattarella, ha cercato di correggersi o, come si dice più eufemisticamente, di “spersonalizzare” il referendum. Ma il rischio della crisi è rimasto concreto, per quanto sia sul versante del centrodestra, o di quello che fu, sia sul versante della sinistra interna al Pd si sono levate voci –in particolare, da Stefano Parisi e da Pier Luigi Bersani– contro una crisi di governo in caso di bocciatura della riforma.

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Il clima quanto meno d’incertezza e le tensioni politiche createsi attorno a questo benedetto referendum dovrebbero consigliare di uscirne al più presto, come si è purtroppo lasciato ai grillini il vantaggio di reclamare e sostenere a voce più alta. Vantaggio, perché risponde obiettivamente al buon senso e alle attese della gente comune.

Invece c’è in giro, da parte del governo, e forse anche altrove, poca voglia di accelerare il percorso referendario. Ne è nato un dibattito che il presidente della Repubblica ha recentemente definito “surreale”, ma che pure lui ha contribuito a rendere tale lasciando senza smentite o precisazioni, e quindi accreditandole, almeno sino ad ora, le voci, le notizie e le cronache politiche che gli attribuiscono l’interesse ad allungare il brodo per mettere in qualche modo al riparo, almeno con l’approvazione di una sola Camera, la inderogabile legge di stabilità.

Si tratta di un interesse istituzionalmente comprensibile, che forse il capo dello Stato ha esitazione ad ammettere temendo di dare l’impressione che egli tema, o addirittura, preveda una bocciatura referendaria della riforma costituzionale, e le conseguenti complicazioni politiche. Ma neppure il presidente della Repubblica può sottrarre la politica al dovere della trasparenza che il cittadino comune si aspetta. E sulla cui mancanza i grillini scommettono per crescere ancora, pur avendo anche loro poca trasparenza, come dimostrano le contorsioni sulle difficoltà della giunta pentastellata insediatasi in Campidoglio.

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