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Tutti gli effetti politici dei raid militari Usa in Libia. Parla Toaldo

Fayez Serraj, Libia, trenta

Gli Stati Uniti lunedì scorso hanno annunciato di aver avviato un nuovo fronte della guerra contro lo Stato islamico, bombardando, per la prima volta in maniera autorizzata, in Libia. Sotto i colpi dei velivoli militari americani sono finite postazioni dell’Isis nell’area di Sirte. L’azione americana è arrivata come risposta rapida a un’esplicita richiesta di Fayez Serraj, il capo del Gna, il Governo di accordo nazionale progettato in sede Onu, che ancora deve ricevere la definitiva legittimazione da parte della struttura parlamentare esiliata a Tobruk e tenuta sotto scacco politico dal presidente dell’assise Agila Saleh e dal suo braccio armato, Khalifa Heftar, entrambi protetti dall’Egitto.

IL BALZO IN AVANTI AMERICANO

Si tratta di un balzo in avanti operativo per gli Stati Uniti, un ulteriore sostegno politico (e pratico) all’esecutivo di Serraj e per certi versi la riaffermazione dell’impegno militare americano nel mondo, scavalcando anche gli alleati europei. Ma gli Usa non sostenevano che dovevano essere proprio gli europei, in particolare gli italiani, a guidare un’eventuale azione in Libia? Gli alleati UE non erano “free riders“, scrocconi, come lo stesso Barack Obama li ha definiti in un’ormai storica intervista sull’Atlantic in cui ha percorso i tratti della sua dottrina in politica estera, ricordando il suo principale intervento militare diretto, la guerra in Libia per deporre il dittatore Muammar Gheddafi nel 2011? Perché adesso questa accelerazione? Formiche.net lo ha chiesto a Mattia Toaldo, senior analyst presso l’European Council on Foreign Relations di Londra, tra i massimi esperti della situazione libica. “Gli europei già ci sono in Libia. Il grosso dell’attività politica e diplomatica è portato avanti da italiani, francesi e britannici. Anche militarmente, non è un mistero il ruolo britannico al fianco di Misurata e quello, più controverso, francese al fianco di Heftar. Obama è tenuto sotto la pressione congiunta dei suoi militari (che premono da gennaio per l’azione, ndr) e di Misurata, che non ce la faceva più senza attacchi aerei di precisione, a cui solo gli Usa e pochi altri possono provvedere”. La decisione di avviare i raid, che per la Casa Bianca dovrebbero durare circa trenta giorni, per il presidente “è – continua Toaldo – un modo di far vedere tante cose allo stesso tempo: primo, che risponde agli alleati locali quando fanno richieste ragionevoli; poi che fa qualcosa contro l’IS in Libia proprio mentre Donald Trump e i repubblicani continuano ad attaccare sulla vicende di Benghazi nel 2012 (dove durante una protesta dei locali, uomini collegati ad al Qaeda tramite Ansar al Sharia assassinarono il console americano Chris Stevens, ndr); tutto impegnandosi in uno scenario relativamente facile come Sirte, dove i baghdadisti non si mischiano ad altri gruppi e dove potrebbero opportunamente essere sconfitti prima delle presidenziali in America”.

GLI OBIETTIVI DEI RAID

In un’analisi pubblicata su Formiche.netMario Arpino, generale dell’Areonautica, già capo di Stato maggiore della Difesa italiana, ha sintetizzato l’impegno americano in Libia collegandolo a tre obiettivi politici e strategici: limitare lo spazio operativo di Haftar, evitare una possibile intromissione della Russia nel dossier, dare un segnale agli “impazienti” alleati inglesi e francesi. “Concordo, anche se penso che la Russia sia già coinvolta al fianco dell’Egitto. Heftar riceve armi di produzione russa dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, e debbo immaginare che Mosca le rimpiazzi subito con forniture al Cairo. Sui britannici però non sono sicuro che siano così ‘impazienti’ per un intervento militare. La Libia non è una priorità per Theresa May (neo primo ministro eletta dopo che David Cameron ha lasciato l’ufficio, ndr) mentre il Foreign Office, al quale sono stati strappati sia il Commercio internazionale che i negoziati su Brexit, deve soprattutto dimostrare di avere successi diplomatici”.

SERRAJ E LA CRISI LIBICA

Che cosa significa questo step up americano per gli equilibri interni in Libia: in particolare, quale sarà la nuova posizione di Haftar?  “Ogni sostegno occidentale a Serraj irrita Haftar, perché lui basa il suo consenso sul fatto di essere l’unico in Libia ad attrarre sostegno esterno. Dunque è probabile che per reazione Haftar inasprisca i suoi atteggiamenti non costruttivi (il governo di Tobruk ha già dichiarato i raid Usa “incostituzionali”, ndr), e non solo su Bengasi, ma anche su Derna, con l’obiettivo di irritare ancora di più i soggetti a Misurata e Tripoli che sostengono i suoi nemici in Cirenaica”. Ma se gli attacchi aerei statunitensi si riveleranno “decisivi”, per usare il termine usato nelle previsioni espresse dal capo delle Forze armate americane Joseph Dunford, aumenteranno il grip di consensi per Serraj? “Per ora, i raid americani non hanno suscitato opposizione popolare come le forze speciali francesi (schierate nella base di Benina, in Cirenaica, insieme ai miliziani di Heftar, ndr). Il vero test per Serraj e per i suoi sostenitori esterni, è comunque la crisi interna: la mancanza di liquidità; il bilancio che va a rotoli; i black out elettrici continui e prolungati; la chiusura degli ospedali. Se non risolve almeno una di queste cose nelle prossime settimane il suo governo potrebbe diventare presto una scatola vuota”.

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