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Vi spiego come Trump sta seducendo una parte degli americani

Di Mattia Ferraresi

Che cosa promette Donald Trump agli americani? Soldi, potere, fama, vittorie, orgoglio, bistecche e champagne, stucchi d’oro, furore imprenditoriale, beato isolamento, pace perpetua, arretramento dello Stato federale, benessere diffuso, negoziati da favola, sprazzi di vita gioiosa e identitaria, tutti finalmente a ricoltivare, nel fine settimana, il sogno americano nel backyard mentre le costine si affumicano a fuoco lento. A un certo punto Trump ha abbandonato queste immagini transeunti, evocative ma in fondo effimere, ed è esploso nell’apocalittico: «I will give you everything».

Ha detto proprio così: «Vi darò tutto», per poi aggiungere: «Vi darò tutto quello che avete cercato per cinquant’anni», lasciando intendere che questo «tutto» un tempo era già stato un ideale condiviso e vissuto. Si può indovinare un contrasto quasi perfetto con il tema narrativo proposto da Obama nella campagna del 2008. Il change era una promessa sbilanciata verso il futuro, la dimensione del possibile; Trump offre, per converso, un nostalgico again, inneggiando al restauro di vecchi tempi felici come via per la vittoria. In questa promessa del «tutto», a metà fra l’evangelico «cento volte tanto» e i desideri sobri del Tony Montana di Scarface, che voleva «il mondo e tutto ciò che c’è dentro», ognuno può vedere ciò che desidera.

È la forza di Trump, eroe anti-cartesiano del vago e dell’indistinto, incoerente per principio, contraddittorio per contratto: un gioco di specchi che riflette desideri e aspirazioni degli interlocutori. In un certo senso è l’esemplare perfetto di una specie americana autoctona, il rappresentante naturale di una civiltà che, come diceva Daniel Boorstin, non ha alcun bisogno di una teoria politica per spiegare se stessa, perché vive nella dimensione della giveness, la «datità». Trump è un dato, non necessita di teorie per essere afferrato e decodificato da chi è immerso nel suo stesso brodo culturale, e questo spiega come la sua figura, diventata brand e icona, abbia avuto successo e riconoscimento per decenni, molto prima della candidatura alla Casa Bianca, del muro al confine, delle querelle con il Papa, delle proposte scioccanti pronunciate con linguaggio sboccato che fanno sudare freddo leader globali poco meno impomatati di lui. Il suo slogan «vi darò tutto» è penetrato per osmosi attraverso la membrana sottile che avvolge l’anima americana, e ciascuno ha proiettato sulla sagoma del leader il proprio io desiderante, sofferente, questuante.

Il trumpismo è il lettino dello psicanalista di una nazione bipolare. Il messaggio ambiguo e liquido si presta a un ascolto selettivo: il pubblico filtra e trattiene ciò che vuole, tutto il resto – pensa – è una figura retorica, è la provocazione di un artista contemporaneo, sarebbe sciocco intenderla in senso letterale. È il modo in cui viene pronunciato a trasmettere vitalità, il tratto dominante di questo leader postideologico. «Non conta ciò che dici, ma come lo dici, perché la personalità ha sempre la meglio», dice Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, il grande dramma che esplora gli equivoci del sogno americano.

Un cronista del «New York Times» ha raccolto alcune voci fra i partecipanti a un comizio di Bernie Sanders, il candidato democratico che ha sfidato da sinistra Hillary Clinton, scoprendo che non tutti erano inorriditi dall’idea di un’eventuale vittoria di Trump alle elezioni generali. Uno di loro ha dichiarato: «Il lato oscuro dentro di me vuole vedere cosa succede se vince Trump. Ci sarà un qualche tipo di cambiamento, anche se sarà una specie di cambiamento nazista. La gente è così abituata ai drama. Vogliono assistere a cose del genere. È come un reality show. Non vuoi vedere tutti felici, vuoi gente che litiga». Il dramma, l’azione, anche rabbiosa e violenta, è implicita nella promessa di Trump. Il pubblico pagante vuole i gladiatori che si azzuffano a morte ma a puntate e senza spoiler, vuole l’indicibile e l’inconfessabile, chiede il freak show, rallenta per vedere l’incidente nell’altra corsia della carreggiata.

A chi rivolge la sua messianica promessa Trump? A un’America ferita. Ad ascoltare le contraddittorie promesse di Donald c’è il paese immobile raccontato da Robert Putnam in Our Kids: the American Dream in Crisis, dove per la prima volta è stato violato un comandamento del sogno americano: che i figli avranno più fortuna e ricchezza dei padri; è il paese in cui le città immaginarie di Fishtown e Belmont, additate dal sociologo Charles Murray come simbolo rispettivamente della classe meno abbiente e di quella più agiata, sono sempre più lontane fra loro. L’America a cui Trump parla è il luogo dell’atomizzazione sociale e della solitudine, dove negli ultimi quindici anni è cresciuto a dismisura il tasso di mortalità nella popolazione bianca fra i 22 e i 56 anni.

Gli statistici la chiamano «morte per disperazione», che nella pratica significa suicidio, overdose, alcolismo. Il numero dei suicidi non ha mai toccato livelli così alti negli ultimi trent’anni, l’eroina è ritornata di prepotenza sul mercato. È quest’America fragile che guarda un uomo che promette: «Vi darò tutto», dove tutto è un insieme di risposte confuse a domande altrettanto confuse. E questa confusa corrispondenza suona sinistramente affascinante. Nel 1961 Boorstin aveva afferrato il meccanismo che sta alla base del trumpismo: «Fino a poco tempo fa abbiamo avuto ragione nel credere alla nota massima di Abraham Lincoln: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”.

Questa è stata una convinzione fondamentale della democrazia americana. L’affascinante slogan di Lincoln poggia su due assunti elementari. Primo, che esista una distinzione chiara e visibile fra la realtà e la finzione, fra le bugie che un demagogo vuole farci credere e le verità che sono permanenti. Secondo, che la gente tenda a preferire la realtà alla finzione; che, qualora venga offerta loro una scelta fra una verità semplice e un’immagine artificiosa, opteranno per la verità. Nessuno di questi assunti corrisponde più alla realtà. Non perché le persone siano meno intelligenti o più disoneste. Piuttosto perché cambiamenti enormi e imprevisti, i grandi balzi in avanti della civiltà americana, hanno sfumato i contorni della realtà. Gli pseudo-eventi che inondano la nostra coscienza non sono né veri né falsi nel vecchio senso che ci era familiare. Gli stessi progressi che hanno permesso i cambiamenti hanno restituito immagini – benché pianificate, artificiali o distorte – più vivide, più attraenti, più impressionanti e più persuasive della realtà stessa»

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