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Vi racconto risse e rissette nel Pd e in Forza Italia

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Roma dunque è minacciata solo dagli incendi, che hanno dato filo da torcere ai pompieri, non dall’avarizia della cancelliera tedesca Angela Merkel e del pur traballante presidente della Commissione Europea di Bruxelles, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, nemmeno invitato del resto al vertice di Ventotene. Alla cui conclusione la maggior parte dei cronisti e degli analisti aveva ricavato l’impressione che, a dispetto dei sorrisi di Matteo Renzi, e per quanto quest’ultimo fosse stato aiutato da François Hollande, la signora di Berlino avesse avvertito il governo italiano che di “flessibilità” n’era già stata concessa abbastanza per aspettarsene altra ancora, da impiegare per rendere più generosa, a debito, la prossima legge di stabilità, ex finanziaria.

Di fronte all’avarizia non si è più capito bene se della cancelliera o della maggior parte dei giornali, le fonti governative italiane hanno tentato una controffensiva. Hanno fatto sapere ciò che solo La Stampa Avvenire avevano un po’ avvertito. Che cioè il rubinetto della flessibilità, a questo punto senza più virgolette, non è stato per niente chiuso. Sarebbe rimasto aperto, sino addirittura ai 10 miliardi di euro annunciati con tanto di titolo da Repubblica in prima pagina. E in più, il pur generico, sotto molti aspetti misterioso Piano Juncker per gli investimenti e la ripresa dell’eurozona starebbe passando da 300 a 500 miliardi, sempre di euro, non certo delle nostre vecchie e scomparse lirette.

Non si sa se fanno parte di questi fantomatici miliardi anche quelli su cui conta per ben cinque anni consecutivi il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio per finanziare il suo imponente programma di grandi opere pubbliche, che procurerebbero sicuramente lavoro e ripresa, al netto delle solite complicazioni burocratiche, idrogeologiche, giudiziarie e d’altro tipo ancora dei cantieri italiani.

Bene, se sono rose fioriranno. Se rimarranno solo le spine, potranno essere guai per Renzi anche nella campagna referendaria d’autunno che lo attende per la conferma della sua riforma costituzionale, per quanto egli abbia provveduto a disinnescare progressivamente l’ordigno smettendo di annunciare le dimissioni in caso di sconfitta. E assicurando infine che si voterà regolarmente nel 2018, alla scadenza ordinaria della legislatura, “comunque vadano le cose” del referendum.

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Il tentativo di svelenire il dibattito referendario tarda tuttavia a produrre effetti nel Pd, dove continuano risse e rissette fra i decisi al sì, i decisi al no e gli indecisi al sì o al no. Rissette, perché a volte il livello dello scontro scende forse un po’ troppo. Il programma, per esempio, delle feste dell’Unità una volta mitiche prevede sinora un “confronto”, credo a Roma, fuoco permettendo, fra Massimo D’Alema e Roberto Giachetti. Che, in verità, più che sulla riforma costituzionale gli elettori romani del Pd vorrebbero forse sentir parlare sul pasticcio delle elezioni capitoline di giugno. Alle quali D’Alema giurò di avere disciplinatamente votato per il candidato ufficiale del partito a sindaco, appunto Giachetti, pur avendolo pubblicamente definito inadeguato, e l’altro rimase convinto che gli avesse invece votato coerentemente contro, non sapendo solo se avesse preferito la scheda bianca o nulla alla grillina Virginia Raggi. Alla quale, d’altronde, l’ex presidente del Consiglio aveva già cercato di procurare come assessore alla cultura un suo amico, consigliandogli di accettare l’approccio adombrato dall’ancora candidata pentastellata a sindaco.

Il vice presidente della Camera Giachetti, che ora si divide fra l’assemblea di Montecitorio e il Consiglio Comunale di Roma, dove si fa aiutare come capo dell’opposizione dalla moglie del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, è comunque rimasto convinto che l’ostilità di D’Alema gli abbia procurato più voti, rivelatisi comunque alla fine ben pochi per fronteggiare il ciclone della Raggi.

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Non è migliore la situazione in Forza Italia, dove colonnelli, capitani, tenenti, brigadieri e caporali di Silvio Berlusconi continuano a seminare scetticismo, a dir poco, attorno al visibile ma pur sempre misterioso incarico affidato dallo stesso Berlusconi a Stefano Parisi. In soccorso del quale si è appena speso con un editoriale su Libero Vittorio Feltri. Ma alla sua maniera, rischiando cioè di procurare al mancato sindaco di Milano più danni che altro.

Il buon Vittorio infatti ha descritto uomini e donne di Forza Italia, tutti miracolati da “Silvio”, in modo tale che riesce francamente difficile immaginare come un umano possa salvare quel partito e fargli recuperare, anche con un altro nome, i tantissimi voti perduti per strada, non importa se già passati a Matteo Renzi o a Matteo Salvini o a Beppe Grillo, o parcheggiati nella vastissima area degli astenuti. E Parisi, purtroppo per lui, è appunto un umano. Soltanto un umano.

Auguri a Parisi, comunque, anche da parte mia, pur nel dissenso dalla praticabilità, almeno nei tempi brevi da lui indicati, della sua proposta alternativa alla riforma costituzionale di Renzi: quella dell’elezione di un’Assemblea Costituente al posto di un Senato che, come ha osservato Marcello Pera, dovrebbe autosopprimersi dopo essersi salvato dal declassamento con una eventuale vittoria del no referendario di novembre. A meno che Parisi, naturalmente, non dica no alla riforma di Renzi per non far perdere la testa ai già troppo agitati Renato Brunetta e Paolo Romani, i capigruppo parlamentari forzisti, e non si auguri in cuor suo che vincano i sì. E’ ciò che del resto sospettano molti dei suoi avversari o antipatizzanti in quello che fu il centrodestra. Un sospetto peraltro esteso agli stessi, reconditi progetti di Berlusconi, visti gli umori non certo barricadieri, contro Renzi, dei suoi amici più stretti e familiari: per esempio, Fedele Confalonieri e Gianni Letta.

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