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Che cosa cela la scomposta reazione della Germania contro Italia, Francia e Grecia

Sequestrata e relegata per un po’ di giorni nelle pagine interne dei quotidiani dalle vicende tragicomiche dei grillini a Roma e dintorni, per le quali bisognerebbe scomodare dalle loro tombe Franz Kafka e Eduardo De Filippo per farne scrivere a dovere, la politica si sta prendendo la sua rivincita.

Stanno tornando sulle prime pagine dei giornali i problemi e i protagonisti veri, nel bene e nel male, dei nostri tempi. Che non sono purtroppo tempi da comici.

Il tanto vituperato Matteo Renzi –vituperato non solo dai grillini e dalla solita sinistra interna al Pd, che lo rifiuta come un intruso perché non è né un ex né un post-comunista, ma anche da quello che fu il centrodestra e presume di rappresentare o tornare a rappresentare i moderati- ha avuto il buon senso e il coraggio di partecipare ad Atene con il premier greco Alexis Tspiras e il presidente francese François Hollande ad un vertice che ha fatto saltare i nervi a Berlino. Dove –diciamo la verità- la comunità europea solidale dei fondatori, a cominciare dal tedesco Konrad Adenauer, non è più di casa. Anzi, non lo è mai stata perché ai tempi appunto di Adenauer Berlino era divisa, come tutta la Germania, la cui parte orientale aveva il cervello a Mosca. E al Cremlino le capitali dell’Europa occidentale erano solo gli obiettivi da colpire con bombe, missili e quant’altro veniva prodotto da quelle parti

L’attuale cancelliera tedesca Angela Merkel, anche se non è fine ricordarlo per i troppi ipocriti che si occupano della materia, allora nasceva, cresceva e si formava oltre quella che si chiamava la cortina di ferro, completata poi a Berlino col cemento di un muro destinato a crollare solo il 9 novembre 1989.

Le scomposte, a dir poco, reazioni germaniche al vertice di Atene o, se preferite, del fronte meridionale o mediterraneo dell’Europa, dovrebbero bastare e avanzare per avere un’idea dello stato in cui è ridotta ormai la cosiddetta Unione, dove il potente ministro delle Finanze, di cui a questo punto non conta neppure il nome, ha potuto permettersi di dare degli “irresponsabili” e degli “stupidi” ai governanti di tre paesi comunitari solo perché socialisti, senza che la cancelliera sentisse il dovere civico e diplomatico di richiamarlo all’ordine, o di metterci qualche pecetta.

Le presunte irresponsabilità e stupidità dei vertici socialisti di Francia, Italia e Grecia deriverebbero dal rifiuto dell’austerità coniugata e parlata solo in tedesco: una lingua per la quale il debito e la colpa sono la stessa cosa. Che è tutto dire. E colpa è evidentemente anche il terremoto, ai cui danni immediati, secondo gli “intelligenti” di Berlino e simili, si può provvedere con spese ammesse alle cosiddetta flessibilità dei conti e parametri europei, ma alla cui prevenzione, con piani trentennali di messa in sicurezza di un territorio disgraziatamente sismico, no. O ni, dipendendo dalle circostanze e dagli umori di quel ministro delle Finanze e di quanti godono a Bruxelles della sua fiducia.

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Il signor Grillo, o come diavolo deve chiamarsi per titoli di studio il fondatore, garante e chissà cos’altro del Movimento 5 Stelle, visto che dispone, almeno sinora, di tanti voti da potere aspirare addirittura a vincere le elezioni e a insediare qualcuno dei suoi ragazzi, a piedi o in motocicletta, a Palazzo Chigi, dovrebbe smetterla di distrarci con i suoi spettacoli, a Nettuno o altrove. E riservarsi almeno un quarto del tempo che ha dedicato in questi giorni a segretari, collaboratori, assessori e quant’altri della sindaca di Roma Virginia Raggi, rispettando finalmente i settecentomila elettori che l’hanno eletta direttamente, per occuparsi di problemi seri come quello dei rapporti fra i paesi dell’Unione Europea. Che non si risolvono –lo dico subito- con qualcuno di quei vaffa…che lui usa lanciare dai suoi palchi perché non costano e non valgono niente. Né si risolvono con processi a vuoto all’euro reclamando di riprendere a battere dalla mattina alla sera le nostre vecchie lirette.

Il futuro, oltre che il presente, dell’Italia si gioca su questi tavoli, non facendo la caccia agli indagati per processarli in piazza anziché nei tribunali, e risolvere le faide interne di partito, o anche quelle esterne, con i soliti supporti di quelli che Ugo La Malfa, in uno dei suoi irrefrenabili scatti d’umore, chiamava pennivendoli. E lo dico, o ricordo, avendone anch’io fatto una volta le spese, quando per avergli attribuito, con buonissime informazioni, la convinzione da lui espressa in un incontro riservato del 1975 con alcuni giornalisti stranieri che fosse “inevitabile” un accordo di governo con i comunisti, mi diede appunto del pennivendolo e reclamò il mio licenziamento dal Giornale. Che, per quanto suo amico, Indro Montanelli gli negò. Ma non ditelo a Marco Travaglio perché potrebbe prendersela a male. E non ditegli neppure che poi La Malfa, vice presidente del Consiglio del penultimo governo di Aldo Moro, mi chiese onestamente scusa.

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Dato a Renzi quel che gli appartiene riconoscendogli il merito di essere andato ad Atene e di aver fatto saltare i nervi al ministro tedesco delle Finanze, gli debbo dire che sulla vicenda del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale la sta tirando troppo per le lunghe: sia con la data sia col tentativo di sottrarsi all’iniziativa, che gli ha appena sollecitato invece il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano -non sospettabile certo di ostilità ad una riforma che proprio lui, Renzi, gli ha più volte intestato- di prendere l’iniziativa, o come presidente del Consiglio o come segretario del Pd, di modificare la nuova legge elettorale della Camera chiamata Italicum.

Non è rinviando la data sino all’estremo che Renzi può pensare di mettere in sicurezza, per lui, il referendum. E’ solo cambiando la legge elettorale, che è la condizione posta da molti, a sinistra ma silenziosamente anche a destra, per uscire dal fronte del no o non entrarvi.

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