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La Cleptocrazia secondo Giulio Sapelli

GIULIO SAPELLI DOCENTE capitalismo

Giulio Sapelli mi chiede un’introduzione non solo per illustrare ciò che mi ha colpito del suo Cleptocrazia, ma anche quello che secondo me va approfondito o che non mi ha del tutto convinto.

È dal 2009, con un dialogo intitolato Capitalismi sulla crisi post 2008 (Boroli editore), che Giulio e io abbiamo conversazioni che talvolta diventano libri. L’ultima ha prodotto nel 2014 Se la Merkel è Carlo V (Guerini e Associati): una provocatoria comparazione tra il Cinquecento e il periodo 1992-2011 in Italia. Conosciamo i nostri reciproci punti di vista e, quindi, quando mi è stata rivolta la richiesta, ho accettato, pur consapevole della diffi coltà che poteva incontrare un giornalista come me più adatto ad analizzare pragmaticamente le questioni che a discutere le tesi di uno studioso così competente.

Rileggere più o meno venti anni dopo Cleptocrazia è stato tornare a partecipare con appassionato interesse alle discussioni scientifiche sui sistemi politici: dalla fondazione morale della cittadinanza agli intrecci con l’economia, dalla più qualificata riflessione costituzionalistica fi no alla concretezza antropologica dei processi. Una lunga corsa guidata dal pensiero dei classici, dei Constant, dei Pareto, dei Weber, e insieme aggiornata dalla ricerca più moderna: così la definizione di poliarchia con il rapporto descritto compiutamente in poche righe tra grande impresa e sistema politico, così quella di neo-patrimonialismo, così del familismo delle società mediterranee e latine.

Nel libro, oltre alla riflessione teoretica, si avverte l’attenzione per le fresche ferite inferte nel corpo della Repubblica da una crisi istituzionale che, almeno per un segmento delle élite (perché per fortuna sono evitate alla più larga parte della popolazione le crudeltà della guerra), dà una sensazione di dissolvimento dello Stato analoga a quella dell’8 settembre. E questo senza che neanche si riesca a capire bene chi rappresenti il nichilismo repubblichino e chi le truppe americane liberatrici.

L’Autore, mosso dalla sua consueta scientificità, ma anche da un appassionato senso civico, oltre a offrirci un’analisi preziosa, nella terribile emergenza, vuole individuare che cosa serva per cercare di ricostruire quella fase, e lo indica in parte nei resti del Partito comunista, uscito meno ammaccato delle altre forze politiche dalle inchieste sulla corruzione, in parte in un ordine giudiziario che, pur con pecche, ha disvelato mali profondi della nazione.

Al di là del merito dei giudizi, va considerato il contesto storico in cui questi furono espressi: si trattava di tenere insieme una Repubblica segnata dalla lacerazione tra società e politica. In Cleptocrazia l’approccio sapelliano si concentra più sui colpi che una struttura corruttiva profondamente pervasiva nello spazio e nel tempo ha inferto al sistema, cioè innanzi tutto all’ordine defi nito dalla Costituzione, che sul sistema in sé. Ovvero sulle contraddizioni che nascono direttamente «dal» sistema piuttosto che «nel» sistema.

Venti anni dopo, pur in una situazione non priva di elementi disgregativi e in un quadro internazionale anche peggiore di quello del 1993, oltre a un’analisi puntuale dei mali, è possibile una rifl essione sistemica meno condizionata dall’emergenza, ricca di due decenni di esperienze. Il professor Sapelli stesso, in un articolo del 2014 (la Postfazione di questo libro), sottolinea alcuni punti di Cleptocrazia su cui rifl ettere. Torna alle vicende di inizio anni Novanta richiamando un contesto internazionale assai condizionante di quel che succede in Italia, ben più stringente di come descritto nel 1994. E ricorda come la stessa spartizione dell’economia italiana in atto oggi abbia le radici nella stagione delle inchieste giudiziarie di quegli anni. Ripensa poi una certa concezione salvifi ca dell’ordinamento giudiziario, vista allora – così nella Postfazione – più «con gli occhiali weberiani dell’orientamento all’azione legal-razionale (visione salvifi ca) […] che attraverso le ben più potenti lenti di Santi Romano degli ordinamenti giuridici di fatto l’un contro l’altro armati (visione agostiniana, mondana)». Da qui la sottovalutazione – che l’autore oggi vede – degli effetti negativi di una magistratura che vuole innanzi tutto combattere la corruzione, mentre, di fatto, nonostante l’espansione del suo ruolo, può soltanto perseguire i reati, e quindi alla fi ne intervenire esclusivamente quando i guasti si sono già prodotti.

Come sempre anche le osservazioni sapelliane aggiuntive sono significative. Né queste nuove considerazioni falsificano le analisi scientifiche su corruzione e su società a tendenza familistica di Sud Europa e America Latina, raccolte in Cleptocrazia. Però la Postfazione spinge a ulteriori approfondimenti. In parte come quelli che l’autore e io abbiamo discusso nel recente saggio sopra citato. In Se la Merkel è Carlo V il confronto si imperniava sulla natura dello Stato italiano, di come esso venga definito da una Costituzione repubblicana senza dubbio ricca dei valori resistenziali, ma orientata nella parte ordinamentale dalla storia nazionale e dai decisivi condizionamenti internazionali della stagione post ’45.

In questo senso la fine del fascismo ridimensiona, ma non elimina, una caratteristica elitista più o meno strutturale del nostro Stato nazionale, che anche dopo il 1945 non riesce a diventare fino in fondo Stato dei cittadini, ma si organizza piuttosto come Stato dei partiti. E in corrispondenza a questo esito non viene superata pure la storica penetrabilità della nostra sovranità da parte di sistemi di eccessiva influenza straniera. Queste caratteristiche si esprimono con nettezza nella parte ordinamentale della Costituzione grazie a un’inadeguata soluzione dei rapporti tra legislativo ed esecutivo, a un eccesso di centralità del Parlamento, al ruolo ambiguo della presidenza della Repubblica, a un’organizzazione corporativa della magistratura (vedi l’unità delle carriere di giudici e pm), riscontrabile in Occidente essenzialmente nel Portogallo salazariano e nell’Italia fascista.

Proprio l’ordinamento della magistratura svela il compromesso tra i due schieramenti che si sfi dano in Italia collegati ai fronti antagonistici della Guerra fredda (campo comunista e liberaldemocratico), che preferiscono affi darsi a soluzioni corporativo-elitistiche piuttosto che correre il pericolo che sfugga loro di mano (con esiti laceranti) l’assunzione di responsabilità politiche delicate. A questo si deve la mancanza di strategie per affrontare le questioni di rilevanza penale, che nella quasi totalità degli stati liberaldemocratici sono affi date a una qualche forma di indirizzo alle funzioni della pubblica accusa da parte delle istituzioni della sovranità popolare, perché a queste spetta di indirizzare le scelte non tecniche ma politiche.Per capire i guasti di una autogestione corporativa di tutta la giurisdizione, possiamo rifl ettere sul terreno su cui esprime le sue strategie la componente delle toghe Magistratura democratica, nata come riformista e cresciuta sull’onda della politicizzazione delle professioni elaborata nel Sessantotto: quello del diritto del lavoro.

Qui la politicizzazione di un ampio settore di pretori, consentita anche dal corporativismo del resto della magistratura, fa prevalere, su una lettura delle sacrosante leggi a difesa dei diritti sindacali, forme di sovralegislazione fondata su una interpretazione della Costituzione che scavalca il Parlamento. La radicalizzazione di una parte della magistratura, assorbita dalle compiacenze corporative, tende quindi a delineare un nuovo soggetto legislativo in grado – come spiega Magistratura democratica – di cambiare l’Italia nonostante le maggioranze parlamentari. Molte delle scelte dei pretori, al di là di pur rilevanti esagerazioni, alla fi ne sono condivisibili per chi voglia condizioni di civiltà sui luoghi di lavoro. Ma l’esito di questa strategia è di svuotare man mano la funzione di un soggetto così importante come il sindacato. Un’organizzazione vitale nella storia d’Italia, ricca di quadri sapienti e capaci, la Cgil si riduce a un corpaccione burocratico, inadeguato in tutte le battaglie che ha di fronte oggi il mondo del lavoro, perché invece di lottare e contrattare, è diventata l’organizzazione che per risolvere i problemi dei suoi rappresentati, va dal pretore.

Ecco un esempio per spiegare come la funzione salvifica che una parte della categoria togata si è assunta, con lo scarso contrasto che deriva dal quieto vivere della «corporazione», abbia, al di là delle intenzioni, esiti negativi e ciò sia possibile proprio per l’ordinamento generale che la Costituzione ha dato alla magistratura nel suo insieme. Questo della magistratura è uno, pur fondamentale, degli elementi, che definiscono uno Stato da una parte elitistico e che dall’altra ha i suoi rapporti con le basi sociali mediate dai partiti (tra i quali metterei l’Anm) invece che dalle istituzioni.

Tutto ciò alla fine rende fragile la nostra sovranità popolare, che sbanda quando scompaiono con la fine della Guerra fredda le condizioni mondiali che tenevano in piedi i suoi partiti-istituzioni, e con la crisi della sovranità popolare si logora (sarà la crisi finanziaria del 2008 a dare l’ultimo colpo) quel che restava della nostra sovranità nazionale pur nel quadro dei sistemi sovranazionali a cui partecipiamo. Nella Postfazione sapelliana emerge la consapevolezza che la crisi era del sistema in sé non solo di sue componenti. Ma l’urgenza stessa degli eventi degli anni ’92-’93 (in parte per lo choc del momento) aveva suggerito di concentrarsi soprattutto su quelle.

In ogni caso, spero che presto altri suoi contributi spiegheranno meglio quelli che da parte di un osservatore come me non possono che essere spunti interpretativi.

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