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Tutti gli umori renziani di Silvio Berlusconi sull’Italicum

Giorgio Napolitano ha chiamato, anzi richiamato, perché non è stata la prima volta, e Matteo Renzi ha risposto sulla necessità di rimuovere dall’accidentato percorso del referendum sulla riforma costituzionale il macigno della nuova legge elettorale della Camera. Una legge che non fa parte della riforma, è vero, come il presidente del Consiglio e i suoi amici hanno sempre ricordato, ma ne potrebbe condizionare gli effetti perché in un sistema in cui a giocarsi la partita del governo sono tre e non più due giocatori, viste le dimensioni del pur malandato e pasticcione movimento grillino, a decidere la destinazione del cosiddetto premio di maggioranza, nel ballottaggio fra i due più votati, potrebbe essere il terzo, cioè l’escluso. Che nel secondo turno può dirottare i voti dei suoi elettori sul secondo partito facendo perdere il primo. E il secondo partito del primo turno, chiunque esso sia, potrebbe prendersi il 54 per cento dei voti pur rappresentando la minoranza dell’elettorato, col risultato genuino del primo giro, in cui si è misurata la forza di ciascun concorrente.

Questa realtà, a dire il vero, era nota anche quando la nuova legge elettorale fu approvata, nella primavera dell’anno scorso, con tale ostinata volontà da parte di Renzi, che pure aveva perso per strada l’originario, per quanto sofferto, sostegno del Berlusconi dei tempi del “Patto del Nazareno”, da farla passare in Parlamento col ricorso al voto di fiducia. Ciò per compattare col massimo di disciplina possibile, e a scrutinio palese, quel che restava della maggioranza.

Ma la prova dei possibili perversi effetti di questa legge nota come Italicum si è avuta con le elezioni amministrative della primavera di quest’anno, particolarmente a Roma e a Torino, dove i grillini quando sono arrivati al ballottaggio hanno vinto sul Pd grazie al consenso raccolto, in chiave antirenziana, nella destra targata, almeno nella rappresentazione percepita dagli elettori, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Renato Brunetta. Che adesso, poverini, non ricordano quello che hanno fatto, o lasciato credere con mezze dichiarazioni, o tutte intere, e si scandalizzano per ciò che i grillini si stanno dimostrando capaci, o incapaci, in Campidoglio e dintorni.

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Consapevoli evidentemente che è meglio tardi che mai, Napolitano è tornato alla carica, in una lunga intervista che si è scomodato ad andare a rilasciare alla Repubblica nella sede del giornale fondato da Eugenio Scalfari, edito da Carlo De Benedetti e diretto da Mario Calabresi, chiedendo al governo una “ricognizione” parlamentare, cioè una iniziativa, per cambiare l’Italicum, e Renzi ha risposto di sì. A condizione –ha detto il presidente del Consiglio e segretario del Pd- che possa venir fuori una legge “migliore” e non peggiore. Che è cosa ovvia, direi banale, perché in politica il concetto di migliore, e di peggiore, è sempre relativo.

E’ bastato, del resto, l’annuncio di un’apertura dichiaratamente “vera e sincera” di Renzi per muovere le acque. Gianni Cuperlo, della minoranza di sinistra del Pd, ha apprezzato. Lo stesso ha fatto, per i voti di opinione che può influenzare nel referendum sulla riforma costituzionale, più di quelli di Cuperlo, e ora persino di Pier Luigi Bersani e dell’arrabbiatissimo Massimo D’Alema, l’anziano ma pur sempre autorevole Eugenio Scalfari. Che aveva già condizionato il suo sì al referendum costituzionale, appunto, al pari dell’amico e editore De Benedetti, ad una modifica della legge elettorale, o ad un serio impegno in questa direzione.

Ma qualcosa ho avvertito muovere anche a destra, per esempio leggendo l’editoriale del direttore del giornale di famiglia di Berlusconi: l’abitualmente rude Alessandro Sallusti, rivelatosi però spesso più informato degli umori dell’ex presidente del Consiglio rispetto a quanti per militanza o ruolo politico vantano di saperli cogliere e interpretare meglio, tipo il già citato Brunetta, o Paolo Romani, o Giovanni Toti. Che continua a scambiare la sua elezione a governatore della Liguria, col sostegno soprattutto dei leghisti, come un successo personalissimo più che come effetto del suicidio compiuto dalla sinistra dividendosi sulla candidata contrappostagli dal Pd.

Sallusti, al netto delle solite rasoiate politiche a Napolitano, non molto popolare da quelle parti, anche se sostenuto calorosamente nella rielezione del 2013 al Quirinale, e al netto pure del solito scetticismo sulla sincerità e linearità di Renzi, non mi è sembrato escludere la possibilità di una riapertura dei giochi anche a destra con la riforma della riforma elettorale. Scusate il bisticcio delle parole, ma non è colpa mia se la politica italiana offre queste mercanzie.

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Fra le mercanzie curiose e sorprendenti della politica italiana, specie ora che ai banchi operano pure i grillini, consentitemi di aggiungere l’ultimissima notizia arrivata dal fronte capitolino. Che non è la pur clamorosa assenza della sindaca Virginia Raggi da un raduno di cattolici dove era stata annunciata la sua partecipazione. E neppure la forse conseguente preoccupazione espressa dall’Osservatore Romano sullo stato di “abbandono” in cui versa la Capitale del cristianesimo, e non solo dell’Italia. No. L’ultimissima è la tentazione attribuita alla Raggi di offrire ad Antonio Di Pietro l’assessorato al Bilancio, dopo le dimissioni improvvise di Marcello Minenna, solidale con la non più capa di Gabinetto Carla Raineri, e la rimozione a tempo di record di Angelo Raffaele De Dominicis, ex procuratore generale della Corte dei Conti del Lazio.

Per quanto impegnato da poco alla presidenza dell’Autostrada Pedemontana conferitagli dal governatore leghista della Lombardia, l’ex campione di Mani pulite ha dato l’impressione –si vedrà se a torto o a ragione- di una certa disponibilità in una intervista di sorprendente sapore garantista, almeno per l’immagine che molti si sono fatta di lui, in materia di avvisi di garanzia e di iscrizione al registro degli indagati. Per ora Tonino, come gli amici chiamano Di Pietro, si è limitato a smentire di essersi offerto o di essere stato contattato. Ma con lui, si sa, non bisogna mai dire mai.

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