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Chi ha ucciso davvero Al-Adnani dell’Isis

Il Pentagono ha confermato lunedì che il raid di precisione che il 30 agosto ha preso di mira Abu Muhammad Al-Adnani ha avuto successo.

LA VICENDA SU CHI L’HA UCCISO

La dichiarazione dell’Amministrazione americana ha anche una traduzione laterale: lo abbiamo ucciso noi, sembra dire, e fine delle discussioni e delle pretese russe. Mosca, il giorno successivo che lo Stato islamico aveva annunciato ufficialmente l’uccisione del portavoce, e capo delle operazioni clandestine, e secondo più alto in grado dell’organizzazione, aveva cercato di intestarsi il successo. Mentre gli Stati Uniti avevano risposto al messaggio di commiato dell’IS dicendo che in quei giorni un attacco nei pressi di al Bab, nel nord siriano, era stato indirizzato verso un importante leader del Califfato ma servivano conferme, la Russia spiegava attraverso i propri media che il bombardamento che aveva portato alla morte di Adnani era una sorta di caso di serendipity: ossia, loro aveva messo in conto di colpire una colonna di baghdadisti in movimenti sull’outskirt nord di Aleppo, avevano centrato il bersaglio uccidendo una quarantina di persone, e solo successivamente s’erano accorti di essere stati così fortunati di aver centrato il comandante. Alla Reuters un ufficiale della Difesa americana aveva definito il rivendico russo “a joke“, una barzelletta, uno scherzo, il portavoce Peter Cook invece aveva replicato in modo meno brusco: “Non ci sono informazioni per sostenere la pretesa russa, non hanno dedicato molti sforzi alla caccia dei capi dello Stato islamico e non usano armi di precisione”. Questa querelle è tutto un programma se si pensa che adesso i due paesi hanno firmato un’intesa, traballante, su una tregua dei combattimenti in Siria, che potrebbe in seguito portare a operazioni congiunte Russia/Usa contro l’IS e contro gli ex qaedisti.

L’IMPORTANZA DELLE VERIFICHE

Mosca approfittava anche del fatto che il Pentagono si stava concentrando sulle analisi post-raid, ossia sul verificare se effettivamente l’uomo ucciso era Adnani: si potrebbe dire che non ce ne fosse bisogno, visto che c’era stata una comunicazione diretta dagli organi media del Califfato, tuttavia era possibile un (seppure improbabile) bluff, e certe informazioni vanno comunque verificate con accuratezza perché possono modificare aspetti importanti della guerra globale in corso contro lo Stato islamico. Per esempio, le tre ragazze arrestate una settimana fa a Parigi stavano organizzando un attacco terroristico in Francia per vendicare la morte del leader; altro esempio più specifico, la morte di Adnani ha portato uno dei predicatori più importanti del gruppo, Turki al Binali, ad esporsi pubblicamente con un discorso registrato in cui parlava del “grande leader” ucciso (Binali ha curato un’agiografia in cui scrive che “al Adnani fu uno degli ultimi sei a ritirarsi da Fallujah durante la battaglia del novembre 2004 in cui gli americani presero la città” secondo quanto riportato dal giornalista del Foglio Daniele Raineri); o ancora, lo Stato islamico ha già annunciato vendetta dicendo che una generazione cresciuta sui territori del Califfo è pronta a immolarsi per il loro leader, perché “il sangue degli sceicchi servirà solo a rendere più ferma sulla via della jihad la determinazione di vendicarsi”, e di solito le uccisioni dei grandi leader si portano dietro una campagna militare (visto il ruolo di pianificatore degli attentati svolto da Adnani, non è da escludersi che la reazione dell’IS possa essere un attacco in Occidente stile Parigi).

GLI USA HANNO VIOLATO LA SICUREZZA DELL’IS

Secondo la ABC la valutazione definitiva comunicata lunedì è arrivata dopo che “comunicazioni intercettate e altri [dati di] intelligence” sono stati utilizzati. Questa è una nota importante, perché è un’ulteriore conferma che in qualche modo – chiaramente non esplicitato – gli americani sono riusciti a violare la bolla di sicurezza dello Stato islamico. Per lo meno in Siria e Iraq, dove da più di un anno molti i principali vertici del gruppo sono stati eliminati dai raid aerei americani (in questi giorni si parla dell’uccisione del responsabile della propaganda, e sarebbe un altro bel colpo visto il ruolo che i messaggio propagandistici svolgono nel proselitismo califfale). Non sono azioni che arrivano per sbaglio o per fortuna, come rivendicavano i russi, non sono blitz ordinati all’ultimo minuto, ma sono operazioni studiate, progettate fin nei minimi dettagli grazie attività di sorveglianza continua e molto probabilmente a contatti di intelligence. E questo apre due aspetti: primo, gli Stati Uniti, oltre a setacciare il territorio con i droni possono essere riusciti a violare le comunicazioni riservate dei baghdadisti (si ricorderà quando da funzionari americani uscì l’informazione che il volo della Metrojet precipitato sul Sinai era stato vittima di attentato, perché c’erano conversazioni in cui se ne parlava). L’aspetto assume valore se messo in relazione con quanto scritto in un articolo uscito in questi giorni sul Wall Street Journal dal quale si scopre tra l’altro che i francesi credevano che la mente degli attacchi a Parigi, Abdelhamid Abaaoud, fosse in Siria mentre in realtà si trovava in Francia, ma era riuscito a deviare le impronte elettroniche con cui veniva intercettato dall’intelligence. “Ci siamo affidati troppo alla tecnologia e abbiamo perso le tracce” ha detto un funzionario al WSJ, e ciò apre il secondo aspetto dietro all’uccisione di Adnani e di altri papaveri: forse gli americani in Siria e Iraq sono riusciti anche a costruirsi una rete di informatori, traditori, spie, infiltrati, che probabilmente hanno approfittato dell’ampio numero di combattenti stranieri che il gruppo ha accolto negli anni (ora il flusso dalla Turchia è sceso a 50 al mese, ma ci sono stati periodi in cui ne passavano più di mille). Molti dei leader sono stati uccisi mentre erano in viaggio – Adnani era partito da Raqqa per arrivare nelle zone nord della provincia di Aleppo a riorganizzare i soldati. Jihadi John, non un leader ma una figura poster del gruppo, è stato centrato lo scorso novembre da un missile Hellfire sganciato da un velivolo senza pilota americano appena rientrato in macchina, dopo aver percorso pochi metri uscito da un edificio nel centro di Raqqa.

 

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