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Come procede la tregua in Siria?

In Siria la tregua vacilla. Non è una notizia inaspettata, visto che tutti gli altri tentativi fatti nel corso degli anni sono saltati in aria: “È durata già quasi come la Seconda Guerra Mondiale, e noi occidentali siamo tra i primi responsabili”, commenta off the records un funzionario della diplomazia italiana – il paragone è iperbolico (nonostante i 400 mila morti e gli oltre 11 milioni di sfollati), anche se sul teatro siriano sono coinvolti vari attori internazionali, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Arabia Saudita all’Iran, per dirne alcuni; e anche se è stato proprio il conflitto uno dei passaggi di sfogo dell’Isis, quello che ha permesso al gruppo creato anni fa da Abu Musab al Zarqawi di diventare una realtà territoriale e implementare come mai visto prima la minaccia terroristica globale.

EQUILIBRI E POTENZE

Nonostante il cessate il fuoco sia operativo da lunedì e si sta avviando negli ultimi tre giorni della cruciale settimana di prova, ancora i governativi non si sono ritirati dalla principale strada che chiude l’assedio ad Aleppo, Castello Road, i ribelli pare che abbiano effettuato qualche sortita militare in violazione ai patti, e le Nazioni Unite non sono riuscite a passare con i convogli umanitari per via della mancanza di autorizzazione da parte di Damasco (20 camion sono fermi appena oltre il confine turco, a nord di Aleppo: il loro carico potrebbe sfamare 80 mila persone per un mese, dice l’Onu). Non solo: una trentina di civili sarebbero stati uccisi nei pressi di al Mayadin, vicino Deir Ezzor, nord siriano, zona non compresa negli accordi perché controllata dallo Stato islamico: l’Osservatorio per i diritti siriani dice che è stata colpa di un attacco aereo russo; qualche decina di chilometri a sudest, verso Palmyra, i russi hanno rivendicano un raid monstre contro l’IS in cui avrebbero ucciso oltre 250 combattenti. In linea di massima nessuno dei principi cardine dell’accordo stretto tra Stati Uniti e Russia è in applicazione definitiva, tanto che il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Mark Toner, non ha potuto far altro che riconoscere “violazioni da entrambe le parti” e ricordare l’obiettivo umanitario come primario. Il fatto che siano stati Washington e Mosca a chiudere l’intesa, oltre ad essere un punto in più per il virgolettato d’apertura, rende l’applicazione sul campo degli accordi un gioco d’equilibri: la CNN ci ha fatto una bella infografica.

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CHI CONTROLLA CHI

Le due superpotenze hanno di fatto in mano il pallino della situazione, sebbene non è chiaro quanta influenza effettiva possano avere sui propri partner. Teoricamente gli americani si fanno garanti dei ribelli moderati, e, soprattutto, dei loro sponsor, ossia Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Giordania, tutte nazioni che hanno investito tanto, in termini pratici e politici nella crisi, e che potrebbero sostenere le proprie agende nonostante il controllo statunitense. Di là, i russi, sono il cane da guardia del regime, e più che altro hanno il compito di bilanciare la risoluzione politica-laica della crisi con le mire ideologiche iraniane (che di Damasco sono sponsor muscolare): anche qui il dubbio resta, gli ayatollah non muovono solo preghiere e influenza settaria, ma hanno interesse ad attestarsi in Siria per avere un punto di appoggio forte nel Medio Oriente mediterraneo, e il problema sarà la convivenza di Teheran con Mosca – scrive il ricercatore italiano Eugenio Dacrema in un’analisi sul sito dell’Ispi, che ormai la Siria può essere definita “un protettorato” russo, e quanto spazio resta allora per l’Iran se non in una logica di alleanza non paritaria? Altro compito russo, fare in modo che le dichiarazioni propagandistiche di Bashar el Assad, che dopo aver pregato l’Eid Mubarak a Daraya (città distrutta dall’assedio del regime) ha promesso di nuovo di riconquistare tutto il paese, tali restino.

UNA PAUSA, OLTRE CHE UNA TREGUA

Il principale dei dubbi si lega ai metodi stessi con cui l’intesa di pacificazione è stata raggiunta: non sono trapelati troppi dettagli, e a quanto pare nemmeno gli alleati stessi dei due blocchi hanno ricevuto troppe informazioni; per Damasco ha comunicato l’accettazione dei patti direttamente Mosca, e alcune delle opposizioni si sono subito distaccate perché non coinvolte nei dialoghi da Washington (nota diplomatica: la Francia, alleata americana, ha chiesto pubblicamente che Washington riveli maggiori dettagli pena la credibilità dei patti). Pare, riprendendo ancora Dacrema, che più che l’inizio di un percorso di pace questa sia una pausa temporanea in attesa di una data certa da cui potrebbero riprendere le cose: le elezioni americane dell’8 novembre, perché è indubbio che la vittoria di Hillary Clinton, più vicina all’interventismo pro-ribelli e all’applicazione letterale del mantra “Must go!” su Assad, possa aprire strade diverse rispetto a un successo di Donald Trump, che ha già annunciato una maggiore apertura alle collaborazioni sulla Russia su vari dossier (va da sé che la Siria potrebbe essere in cima alla lista di questi).

COMBATTERE AL NUSRA

L’accordo siglato il 10 settembre, infatti, prevede una serie di implementazioni nebulose: dalla prima settimana di tregua, si dovrebbe passare alla creazione di una centro di comando congiunto con cui americani e russi dovrebbero coordinare le missioni contro lo Stato islamico (che finora non è stato tra le priorità di Mosca) e la Jabhat Fateh al Sham, ossia il gruppo che un tempo si faceva chiamare Fronte al Nusra e che era l’emanazione di al Qaeda nel conflitto. Qui c’è già una delle prime problematica pratiche: come reagiranno le formazioni ribelli sul campo agli attacchi contro al Nusra? Moti dei gruppi combattenti non condividono l’ideologia qaedista, altri hanno visioni altrettanto radicali, ma hanno con l’ex al Nusra un rapporto simbiotico pragmatico: è l’unità combattente più determinata, meglio organizzata, meglio armata, che lotta contro il regime, e dunque sono state chiuse joint venture operative per attaccare le postazioni lealiste; l’idea più o meno è “intanto buttiamo giù Assad insieme, poi si vedrà”. I legami di al Nusra con la realtà terroristica qaedista sono stati probabilemte oggetti soltanto di un maquillage, ma colpirla è indubbiamente un favore al regime, che si vedrebbe erosa una delle più potenti forze di opposizione sul campo di battaglia.

IL COMANDO CONGIUNTO USA-RUSSIA

Anonimi “alti funzionari” hanno rivelato alla Associated Press che c’è già una mobilitazione in atto tra “risorse” provenienti da altre parti del mondo (“per non erodere le forze della Coalizione”) che verranno spostate per mettere insieme il necessario a procedere nelle operazioni congiunte Usa-Russia. Gli americani vogliono evitare errori, vogliono che i target siano ben identificati e richiedono settimane prima di procedere (i russi invece vorrebbero partire appena il centro di comando congiunto sarà impostato: ossia fra pochi giorni se la tregua regge). Soprattutto gli americani cercano maggiore intelligence sui qaedisti: non vogliono e non possono rischiare che la prossimità con altri gruppi possa portare questi ultimi sotto le loro bombe, anche perché alcune sono realtà combattenti che hanno avuto sostegno diretto dagli Usa e/o dai paesi alleati. Inoltre Washington chiede un meccanismo di distinzione con i russi, perché ha già dichiarato di non assumersi nessuna responsabilità se l’aviazione di Mosca dovesse colpire i civili (vedi Deir Ezzor giovedì). Queste preoccupazioni, oltre quella sottilmente strategica di non mettere in condivisione tecnologie e metodi, sono la principale preoccupazione del Pentagono, che già nei giorni scorsi ha espresso perplessità sul procedere coordinatamente con Mosca. Il più fiducioso è l’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura, che a qualche cosa deve pur aggrapparsi nell’enorme caos che lo circonda: per il diplomatico Onu l’avvio di operazioni congiunte tra russi e americani sarebbe l’indiscutibile avvio di un percorso risolutivo definitivo – dei cui tempi, però, ancora non se n’è parlato nemmeno nei documenti sulla tregua, a quanto pare.

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