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Cosa insegna il caso di Tiziana Cantone

Aveva chiesto, implorato d’essere dimenticata. Ma Tiziana Cantone, trentun anni, impotente prigioniera del web, non ce l’ha più fatta a rompere le catene. S’è uccisa dopo che aveva cambiato città e perfino nome, s’è uccisa perché non riusciva più ad accettare l’odiosa persecuzione che subiva dalla rete a causa di un video che la ritraeva durante un rapporto sessuale. Quel video forse per gioco, forse per ingenuità, era finito nel tritacarne di internet. Da allora Tiziana era stata tempestata dall’insulto di tanti e dal tormentone di molti, che ripetevano le sue parole riprese dalla telecamera, per irriderla e divertirsi alle sue spalle. Tiziana non sopportava più la gogna che soltanto una fogna può generare, come succede quando questo meraviglioso strumento della comunicazione universale diventa il patibolo dei frustrati, la ghigliottina del pregiudizio perfetto, l’alibi per la violenza virtuale, anonima e di massa. Se le parole sono pietre, i clic possono diventare un macigno.

Per far valere il suo diritto a essere rispettata, la donna aveva rivendicato, anche giuridicamente, il “diritto all’oblio”: togliere dai motori di ricerca quel video hard che la stava triturando, perché il video era nel frattempo diventato virale, il che significa espandersi a tutta velocità fra un utente e l’altro. Ma significa, soprattutto, passare dal mondo della provincia napoletana, dove la ragazza era nata e cresciuta, figlia di un barista, al mondo di chiunque, che ti fa a pezzi senza curarsi dei tuoi sentimenti e cambiamenti. Per questo esiste il “diritto all’oblio”: la gente cambia e non sempre o non più si riconosce in ciò che era. Invece la rete ti inchioda al passato che non passa, ti rinfaccia finché vivi ciò che non ti appartiene da anni. Il clic ferma il tempo, certo, ma lo rende, paradossalmente, eterno.

Tiziana ha provato a ribellarsi all’eterno presente, e la giustizia le stava dando ragione, sollecitando alcune società come Facebook a rimuovere i video personali della donna. Ma chiedendole ventunmila euro per spese legali pur da compensare. Questa nuova schiavitù di chi dipende dalla rete, può diventare incubo. Non si contano -ieri è successo a una ragazza di Rimini- le violenze fatte e filmate da amici per metterle in internet e riderci pure sopra. Abbeverarsi alla rete solo per avvelenarla, e morire per la gogna del web: dobbiamo far diventare virali i valori che contano, per non sprofondare nell’abisso.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

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