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Donald Trump è fascista? Rileggiamo Sinclair Lewis

Coltivo un’antica e radicata diffidenza per quelli che – “vichianamente” – trovano con troppa facilità, quasi ad ogni angolo di strada, un “ricorso” della storia: mi è sempre parso meccanico, anzi addirittura meccanicistico, ritenere che ingredienti simili debbano necessariamente produrre il medesimo risultato, anche in presenza di attori e circostanze diversissime. Simmetricamente, coltivo un’analoga ostilità per quelli che – in modo uguale e contrario rispetto alla prima categoria – sono sempre pronti a sentenziare che “stavolta” sia tutto diverso, che i fatti del presente siano per forza incomparabili col passato. Un minimo di equilibrio, di buon senso, e soprattutto di ragionevole empirismo, ci aiuta in realtà a stare nel mezzo tra i due schieramenti, a misurare con equilibrio vicinanze e distanze, a trovare riferimenti nelle vicende di ieri senza con ciò rimanere ingabbiati in schemi immutabili.

Da mesi, al di qua e al di là dell’Atlantico, è di gran moda una tendenza giornalistica (ormai è un “genere”) che sovrappone Donald Trump al fascismo. Non sto qui – avremo tempo, fino ai primi di novembre – a fare analisi politologiche o previsioni: i sondaggi, per buona parte dell’estate, hanno constatato un consistente arretramento di Trump, che – da parte sua – ha dedicato ogni energia a rendersi inaccettabile (esattamente ciò che un outsider non dovrebbe fare!), in particolare polemizzando con i genitori di un soldato americano di religione islamica, tragicamente morto in Iraq. Da una settimana, per la verità, Trump ha ripreso a recuperare, con il colpo di genio (di questo indubbiamente si tratta, dal suo punto di vista) del suo spettacolare viaggio in Messico: più utile – però – a riprendersi il centro della scena mediatica e a eccitare i suoi tifosi che non a convincere gli incerti e gli indipendenti. Vedremo se Trump sarà in grado nei tre dibattiti televisivi faccia a faccia (le sue carte decisive, a questo punto) di tenere insieme la spinta antisistema che lo ha premiato alle primarie con quella soglia minima di “accettabilità” che è indispensabile per imporsi alle elezioni generali. E certo il mondo repubblicano, dinanzi alla debolezza e alle opacità della candidatura Clinton, ha molti rimpianti: se fosse stato in grado di selezionare un candidato più rassicurante, oggi le chances di successo sarebbero forse maggiori, chissà. Ma la partita è tutt’altro che chiusa, anzi: e se fossi (non lo sono) un sostenitore di Hillary, mi farei qualche domanda su un vantaggio tutto sommato risicato (ammesso ci sia ancora) nonostante sette-otto settimane orribili per la campagna Trump. Tra l’altro, ora cominciano i guai per la Clinton: la recentissima pubblicazione dei documenti Fbi sul suo scandalo-mail mostrano che quella vicenda (tra i “non ricordo” di Hillary e i 13 apparecchi usati per inviare e ricevere posta elettronica!) è da considerare tutt’altro che chiusa, non solo mediaticamente.

Ma non è questo il punto, almeno per ora. La questione su cui vorrei riflettere oggi è la vulgata sul “Trump fascista”: c’è del vero o no? A favore del parallelo, gioca indubbiamente il rapporto “mussoliniano” del miliardario con la folla: il gioco delle domande e delle risposte nei comizi di Trump (con il pubblico che, come a Piazza Venezia, dà sempre la risposta “giusta”), l’attitudine istrionica, il sapersi sintonizzare su lunghezze d’onda di massa, la capacità di inventare “conspiracy theories” e complotti anche internazionali, eccetera. Ma tutto si ferma qui. E francamente, paragonare l’America del 2016 all’Italia del 1922 appare surreale: non risulta che gli Stati Uniti escano da una Guerra Mondiale con 600mila morti e da una “vittoria mutilata” in qualche conferenza internazionale postbellica, per limitarci al più clamoroso dei fattori da considerare.

Eppure (proviamo a rifornire di materiale, di provviste e di “armi”, i nuovi “antifascisti-antitrumpisti”) per alcuni potrebbe essere illuminante rileggere un romanzo di Sinclair Lewis del 1935, “It can’t happen here”. Gusti e attitudini di Lewis sono ben noti, da “Main street a “Babbitt”: una satira feroce – e francamente a volte eccessiva e fuori misura – verso le classi medie americane, verso l’America “ufficiale”, verso il capitalismo, una propensione a de-mitizzare e a de-sacralizzare tutto ciò che ha reso grandi gli Stati Uniti. E però, al tempo stesso, superati i passaggi troppo grossolanamente ideologici, troppo rigidamente da contestatore e da bastian contrario, la lezione di Lewis è comunque preziosa: il ruolo del dissenso come valore aggiunto in una democrazia, il dubbio come contributo prezioso rispetto allo status quo e ai suoi cantori.

Nel ’35, Lewis va oltre rispetto ai suoi romanzi degli anni Venti, e immagina un ipotetico avvento del fascismo negli Stati Uniti: il titolo ironizza proprio su chi sottovaluta il rischio, su chi ripete stoltamente “qui non può accadere”. E invece – un po’ ragiona e un po’ immagina Lewis – può succedere, eccome: con la grande crisi del ’29, con un immenso ceto medio impaurito e impoverito, può esserci qualcuno disposto a giocare con spregiudicatezza la carta autoritaria.

Il romanzo parte proprio da qui. Lewis descrive la corsa alla presidenza di un demagogo, il senatore Windrip (si badi bene: nel romanzo è un candidato democratico…), supportato dal suo diabolico spin-doctor e ghost-writer Sarason (che poi, da buon servo-padrone, deporrà Windrip per prenderne il posto). Windrip, ad alcuni lettori di oggi, apparirà davvero come un anticipatore di Trump: vuole “sistemare le cose” (“fix things”), dichiara di volersi occupare dei dimenticati (“the forgotten men”), insomma sciorina tutto il più classico repertorio qualunquista. Alle elezioni straccia il suo avversario, un repubblicano – annota perfidamente Lewis – “svantaggiato dall’essere onesto e dal non saper fare promesse mirabolanti”, istituisce una minacciosa milizia (i “Minute Men”), pronta a picchiare e reprimere ogni dissenso, e instaura un vero regime, tra gerarchi macchiettistici, richiami espliciti al corporativismo italiano degli anni Trenta, e violenza vera. La descrizione di Lewis è potente e di sicuro effetto: un governo fatto per metà di fantocci e per metà di pazzi fanatici, l’inevitabile tripudio di inni-cori-simboli-divise, roghi di libri sgraditi, chiusura di giornali, pestaggi degli oppositori, fino all’istituzione di veri e propri campi di detenzione per oppositori e nemici della patria. Il tutto (Lewis, per evidenti ragioni, non può avere letto nel 1935 ciò che il grande Renzo De Felice scriverà alcuni decenni dopo) con un grande, crescente, esaltato consenso popolare.

Oggi, più di ottant’anni dopo, i lettori di Sinclair Lewis possono trovare almeno tre diverse lezioni, a seconda dei gusti di ciascuno.

La prima è la lezione adatta a quelli che chiamerei gli “antitrumpisti professionali”. Come accennavo prima, è irresistibilmente comico il gioco delle somiglianze tra Trump e il dittatore del romanzo: chi si accontenta di questo aspetto, può dunque trovare ampia soddisfazione e copioso materiale per rassicurarsi nelle proprie convinzioni.

La seconda, invece, è la lezione più adatta a chi (come me) non ama certamente Trump, ma ama anche meno i suoi avversari più conformisti e banali. Attenzione: il “fascismo” – oggi – non è necessariamente dove (o solo dove) credete di trovarlo. Anzi, uno come Trump, con quei modi e quel linguaggio, già crea – in qualche misura – alcuni opportuni anticorpi in chi lo ascolta, già induce – involontariamente ma inevitabilmente – alla diffidenza verso di lui. Almeno altrettanto (e forse anche più) insidioso è invece il “fascismo dolce” di molti suoi avversari, di chi vuole “unire” e “affasciare” tutto contro il “pericolo incombente”, di chi vuole “salvare la patria” e, dietro questa nobile intenzione, punta al mantenimento dell’esistente, a una continuità che è nel suo interesse molto più che in quello dei cittadini. Attenzione, dunque, a chi “si presenta bene”, ma non per questo è necessariamente migliore di chi “si presenta male” come Trump…

La terza lezione è la più eterna, e la più utile per tutti. E viene dall’eroe buono del romanzo di Lewis: un giornalista non noto, Jessup, che, senza alcuna vocazione al martirio o all’eroismo, organizza un piccolo foglio clandestino, e si troverà a pagarne un prezzo altissimo in termini di persecuzione e violenza. Jessup, nel romanzo, è un uomo di sinistra, un liberal, ma – attenzione! – rifiuta ogni dogmatismo, ogni ideologia, e diffida della militanza politica integrale. Le utopie – ripete – sono pericolose, inducono a violenza e fanatismo. Quello che auspica sono “azioni di massa” ma – si noti l’ossimoro… – da parte di un individuo, solo sulla cima di una collina. Ciò che davvero vale nel mondo – è questo il suo insegnamento – è stato sempre prodotto dallo spirito critico, dalla libertà di porsi dubbi e domande: e difendere questo spirito è più importante di qualunque “sistema sociale”.

Non sarà forse una soluzione vincente contro vecchi e nuovi “fascismi”, ma è di sicuro il miglior “caveat” possibile, per ciascuno di noi, per considerare con equilibrio e senza conformismo i fatti del passato e quelli del presente.

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