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Il triste spettacolino del vertice europeo senza Matteo Renzi

Per Giorgio Napolitano, più ancora che per Matteo Renzi, affrettatosi a liquidare la cosa come “ovvia”, dev’essere stata un’altra grossa delusione vedere il presidente della Commissione Europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, sempre più schiacciato sulla linea dettata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e accettata dal presidente francese François Hollande. Una grossa delusione, perché il presidente emerito, cioè ex, della Repubblica era sceso in campo in Italia, con una intervista al Corriere della Sera, per consigliare quasi paternamente al presidente del Consiglio di scommettere appunto su Junker, rinunciando a polemizzare con Berlino e Parigi, per far cambiare verso all’Europa. Che a furia di austerità sul versante dell’economia e di confusione sul versante dell’immigrazione sta diventando, a dir poco, impopolare. Tanto impopolare che ad ogni elezione nazionale, politica o amministrativa che sia, crescono i partiti antieuropeisti e perdono voti quelli più tradizionalmente legati al progetto dell’unione europea: al minuscolo, per come è stata ridotta con la gestione attuale quella con la maiuscola.

Il signor Juncker, a dispetto delle aperture viste da Napolitano nell’ultimo, recentissimo rapporto al Parlamento europeo sul programma della Commissione Europea che presiede, prima ha liquidato le nuove richieste di “flessibilità” nei conti avanzate da Renzi, dicendo che il governo italiano ne ha già avuta, e poi ha risposto come un soldato all’invito della Merkel e di Hollande a partecipare al loro prossimo vertice, annunciato per mercoledì 28 settembre. Un vertice che si distingue, più che per il tema all’ordine del giorno, che è lo sviluppo del sistema digitale, per l’esclusione di Renzi.

La giustificazione data da Berlino a questa esclusione, snobbata –ripeto- da Renzi come una “ovvia” conseguenza delle opinioni da lui espresse sulla gestione dell’unione europea, sempre con la minuscola, è come la pezza peggiore del buco. Sarà una riunione “di routine”, hanno spiegato a Berlino, così confermando che la routine, cioè la normalità, è fatta di confronto e di intese fra la cancelliera tedesca e il presidente francese  alla presenza di un accomodante presidente della Commissione di Bruxelles. Che d’altronde, come Napolitano sa bene, avendo quanto meno frequentato il Parlamento Europeo, senza parlare delle altre sue esperienze internazionali e nazionali, non potrebbe restare al suo posto un giorno in più se i due azionisti maggiori dell’unione –sempre al minuscolo- decidessero davvero di liberarsene.

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Nella loro ormai ossessiva opposizione a Renzi, comportandosi pedissequamente come una volta rimproveravano giustamente di fare alla sinistra, quando a guidare il governo era Silvio Berlusconi, quelli dell’ex o ricostruendo centrodestra si guardano bene dal sostenere il presidente del Consiglio italiano nella partita ch’egli ha finalmente deciso di riaprire in Europa, dopo avere ripetutamente e inutilmente tentato di far cambiare musica alle orchestre di Berlino e di Parigi, e alle orchestrine di supporto.

Il capogruppo forzista della Camera, il solito Renato Brunetta, sempre seduto animosamente sulla punta della sedia nel salotto televisivo di turno, che è stato stavolta quello di Enrico Mentana, a La 7, si è sbracciato per denunciare con giubilo ben poco patriottico “l’isolamento” del presidente del Consiglio italiano  in Europa. Lo stesso provato, con i noti sorrisini fra la cancelliera tedesca Merkel, sempre lei, e l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, negli ultimi mesi del governo Berlusconi. Allora l’unico che dai banchi dell’opposizione si alzò per protestare non contro il presidente del Consiglio italiano ma contro la Merkel e Sarcozy fu Pier Ferdinando Casini, l’attuale presidente della Commissione Esteri del Senato. E’ bene che queste cose vengano ricordate. Cosa che naturalmente non fa Brunetta, al quale solo il nome di Casini pare gli procuri l’orticaria per l’impegno col quale si è schierato sul fronte referendario del sì alla riforma costituzionale di Renzi. Una riforma che già da sola, ma ancor più se collegata concettualmente e praticamente alla legge elettorale della Camera nota come Italicum, sarebbe per il capogruppo di Forza Italia a Montecitorio una sciagura per la già traballante democrazia italiana. E i suoi sostenitori nell’area tradizionale dei moderati sarebbero degli sciocchi o dei cavalli di Troia del nemico, cioè degli infiltrati.

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Come in un pozzo senza fondo, Brunetta si è calato nell’opposizione alla riforma costituzionale, su cui gli italiani voteranno ormai o nell’ultima domenica di novembre o nella prima di dicembre, sino a trovarvi addirittura la “truffa” del quesito su cui gli elettori saranno chiamati a rispondere sì o no. Ma qui egli ha compiuto errori cui si stenta a credere per i ruoli istituzionali che ricopre o ha ricoperto – capogruppo, rispettivamente, e ministro – sia per la ormai non breve esperienza parlamentare, sia per il suo mestiere di professore universitario.

Il quesito referendario che Brunetta ha attribuito al presidente del Consiglio non è stato scritto a Palazzo Chigi ma al Palazzaccio, cioè negli uffici giudiziari della Cassazione, a ciò preposti dalla legge. E i magistrati non se lo sono fatti dettare da Renzi, ma lo hanno semplicemente e doverosamente copiato dal titolo della legge di modifica della Costituzione approvata dal Parlamento. Un titolo che non è generico, di poche e burocratiche parole, come quello improvvidamente scelto dal centrodestra nel 2005 per la sua legge di riforma della Costituzione, bocciata nel 2006 dagli elettori referendari, ma scritto meglio dal governo promotore della riforma: scritto meglio perché ne elenca i punti salienti. Che sono il superamento del bicameralismo cosiddetto paritario, cioè del doppione delle Camere con gli stessi compiti, la riduzione dei senatori, il risparmio derivante dalla mancanza delle loro indennità, la soppressione dell’inutile Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e la modifica del titolo quinto della Costituzione, riguardante le competenze delle regioni.

Il quesito insomma è stato fatto con gli stessi criteri di quello sulla riforma del centrodestra: mettendo il titolo della legge uscito, con gli articoli, dal Parlamento su cui gli elettori dovranno dire sì o no. Non si capisce francamente dove sia lo “scandalo” o la “truffa” di un quesito “spot”. Eppure l’estate è ormai finita e non si può pensare neppure a colpi di sole.

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