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Come si è discusso di pace all’inaugurazione della preghiera di Assisi

“L’intuizione di San Giovanni Paolo II, che le religioni fossero insieme per la pace, non era scontata nell’86 e non lo è nemmeno oggi. Pregare per la pace significa non stare più gli uni contro gli altri, come è stato per secoli e forse per millenni, ma un nuovo modo di stare insieme”. Con queste parole del fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, pronunciate durante l’incontro inaugurale e davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si è aperta la trentesima edizione della Giornata mondiale di preghiera per la Pace, quest’anno intitolata “Sete di Pace. Religioni e culture in dialogo”. La ricorrenza trentennale, il ritorno nella cittadina umbra del poverello di Assisi, l’attesa di un Papa che ha deciso di portare proprio il suo nome, e che arriverà nella giornata di martedì: tutti questi elementi proiettano l’evento, edificato per l’appunto sullo spirito di Assisi e promosso da Karol Wojtyla, all’interno di una prospettiva incorniciata da valori fortemente simbolici.

IL PENSIERO DI RICCARDI

Fu proprio in quell’estetica del dialogo, in quei gesti di Giovanni Paolo II, che “si recuperarono insieme le speranze e le fatiche di tanti pionieri”, dice Riccardi, e si dimostrò come “le religioni nell’accostamento liberassero energie di pace”. Non si può infatti “avere la pace senza la preghiera di tutti, ciascuno con la propria  identità e verità”, in un’orizzonte che è quello “del mondo globale. Spesso – ha proseguito Riccardi – un mondo chiuso confina i credenti in logiche conflittuali, mentre nell’incontro c’è un processo di liberazione”. In questo contesto “la preghiera segretamente illumina il mondo” e il dialogo è “l’intelligenza del coesistere, che rende possibile la più grande forma di civiltà, quella del vivere insieme”. Infatti “la laicità non è la religione dei senza religione ma del vivere insieme, dell’armonia tra le religioni, e la religione quando esprime il meglio di sé tende alla pace”

LE CONSIDERAZIONI  DI  BAUMAN

Il noto sociologo polacco Zygmunt Bauman, ha esordito il suo intervento  sostenendo che, se è vero che “la storia della parola “noi”, cresciuta negli anni in modo costante”, parte dai nostri avi “cacciatori e raccoglitori” per giungere “fino all’epoca degli imperi e degli stati nazione”, oggi ci troviamo a un punto “che non ha precedenti, un salto successivo che richiede l’abolizione del pronome ‘loro’. I nostri antenati avevano qualcosa in comune: un nemico. Ora, nella realtà cosmopolita, dove lo troviamo?”. È qui che nelle parole del filosofo l’idea della spiritualità religiosa acquista un senso proprio e  un valore concreto, nella lotta ai mali, o  al maligno, che condizionano le vite e  le scelte degli uomini nella società liquida, e nel dialogo perciò con l’altro. E con quell’unica paternità che può renderci fratelli. Anche se “il rovescio della medaglia, come ha detto Ulrich Beck, è che non abbiamo nemmeno iniziato a pensare ad una consapevolezza cosmopolita, e per questo con gli strumenti dei nostri antenati guardiamo alla sfida attuale, quella di superare gli stati nazione”. Il più grande dono dato dalla Chiesa cattolica, dice inoltre Bauman, ci viene oggi  da Papa Francesco “che ci indica il percorso”. Dobbiamo per questo  “guardare alla luce in fondo al tunnel a prescindere da quanto sia lontana”.

LE PAROLE DELL’ARCIVESCOVO DI ASSISI

Durante l’incontro inaugurale, che si è svolto al teatro Lyrick di Assisi dopo la messa mattutina alla Basilica di San Francesco, hanno preso la parola numerose personalità, (e altrettante parteciperanno oggi ai panel sparsi per tutta la cittadina) tra cui l’Arcivescovo di Assisi Domenico Sorrentino, che ha sottolineato il legame tra questo spirito di pace e la scelta di san Francesco di denudarsi di tutto  “esprimendo il suo desiderio di conformarsi a Cristo liberandosi delle ricchezze della terra per essere uomo libero e  fratello universale”. Per capire come  arginare la violenza e promuovere un mondo accogliente e fraterno, e quale può essere in questo il ruolo dei credenti, secondo il parere del porporato occorre interrogarsi “sul senso della vera religiosità, e bisogna prender sul serio lo spirito di Assisi non rinunciando alle identità, ma alla loro parte arrogante e  pretenziosa”.

L’INTERVENTO DEL PATRIARCA DI COSTANTINOPOLI

“La ragione fondante di apertura e dialogo è che tutti gli esseri umani si confrontano con le stesse sfide”, ha poi detto il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. “Chi ha convinzioni  forti e  fondamentaliste, piuttosto che sacrificare le proprie idee ricorre alla violenza. Dobbiamo guardarci l’un l’altro con amore e compassione, perché siamo più vicini  di quanto non ci vediamo  distanti e diversi”. Anche se, sostiene Bartolomeo, “non  siamo così naif da pensare che il dialogo non possa avvenire attraverso un costo, perché l’incontro  porta incertezza verso il risultato finale, ma quando ci rendiamo conto che il dialogo è possibile avviene qualcosa di sacro, la realtà di qualcuno o qualcosa che è oltre noi stessi ci conquista, e allora il dialogo porta a benefici molto superiori ai pericolo”. Per queste ragioni, la pace è una “risposta ecumenica rispetto a una responsabilità ecumenica”.

LA PACE ISRAELIANA

Il rabbino e presidente del consiglio nazionale di Israele per la bioetica Avraham Steinberg ha ricordato come “tra i nomi regali della tradizione ebraica ce n’è uno che è shalom, pace”, che è quando “auguro che su di te ci sia pace”. Cercare la pace è infatti “una delle tradizioni principali della cultura ebraica”, dice Steinberg: “Un sapiente disse che il mondo si regge su tre cose: giustizia, verità e pace. Noi preghiamo costantenente per la pace – ha proseguito il rabbino -, la nostra principale preghiera si conclude con ‘benedico il signore nostro con la pace’. E così tutte le preghiere del mattino dicendo: “Il signore amerà il suo popolo con la pace. Il nostro compito è perciò di operare per la pace, ovunque, in Israele e nel mondo intero. Questi cicli di vita sono fortemente indicati nel talmud come dovere vincolante e non come raccomandazione etica o morale”.

LA SFIDA MUSULMANA

Mentre il consigliere politico del Gran Muftì del Libano Mohammad Sammak introduce il suo intervento, uno tra gli ultimi in ordine di tempo ma non di importanza o  interesse, chiedendosi: “Se san Francesco tornasse in vita oggi come sarebbe accolto dall’Isis e i  suoi simili? Avrebbero rispetto per il suo abito? Avrebbero interagito con lui liberamente e alla luce di ciò che il corano dice dei cristiani? Sappiamo già la risposta, come sappiamo cosa è successo ai tanti monasteri, chiese e moschee distrutte, sebbene nel corano vengono descritte come case di Dio”. Qual è quindi il senso di tutto ciò? “Le parole del profeta non sono cambiate – dice Sammak -, ma ciò che è cambiato è che un gruppo di disperati ha dirottato l’islam e lo sta usando come uno strumento di vendetta, un nuovo strumento di totalitarismo stavolta in nome di una religione, noi comprendiamo che dobbiamo liberarcene”. Anche per questa ragione quindi, “affrontare il tema del terrorismo religioso è un compito innanzitutto dei musulmani. L’islam crede nel pluralismo e considera la diversità tra gli uomini un  bene divino, secondo cui le persone sono differenti tra di loro”. E “il dialogo è un  mezzo per conoscerci ma non può esserci dialogo senza libertà. Papa Francesco si è dimostrato essere un leader spirituale per tutta l’umanità quando ha detto che uccidere in nome di Dio è satanico e che non ci sono religioni criminali ma criminali in tutte le religioni”. Lo spirito di Assisi, ha concluso il consigliere libanese, “ci ha radunato per essere insieme  come  umanità, perché i rapporti tra religioni diverse devono  fondarsi sulla fiducia verso il pluralismo e la diversità”.

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