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Vi racconto cosa unisce Virginia Raggi e sinistra Pd

Virginia Raggi

Il povero Aldo Moro, di cui peraltro rievoco a parte la figura politica nel centenario della nascita, aveva ragione anche nel considerare “essenziale nella politica lo stile”. E lui, in effetti, ne aveva, anche se i suoi critici ed avversari cercarono poi di inchiodarlo alla disperazione delle lettere che mandò dalla prigione delle brigate rosse per sottrarsi alla morte: lettere che alcuni vollero ignorare, considerandole estorte dagli aguzzini, o comunque dalle condizioni in cui si trovava, e altri vollero usare per accusarlo praticamente di viltà, mancanza del senso dello Stato ed altro ancora.

Eppure furono gli stessi che poi promossero, condussero o tollerarono trattative mediate dalla camorra per liberare da un’altra prigione delle brigate rosse un assessore regionale democristiano della Campania.

Pur disperate, anche in quelle lettere di Moro c’era uno stile: quello del ragionamento, della riflessione.

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Di stile hanno appena mancato le minoranze del Pd con quello che è stato chiamato, sia pure con qualche forzatura, “l’Aventino di Bersani”. I cui compagni e seguaci, di provenienza comunista ma qualcuno anche democristiana, hanno preferito rinunciare alla votazione sulla mozione concordata alla Camera fra il gruppo del Pd e gli alleati centristi di governo per la riforma della legge elettorale chiamata Italicum.

Gli “aventiniani”, chiamiamoli così anche noi per comodità, hanno motivato la loro decisione denunciando la genericità del documento sulle modifiche da apportare alla legge in vigore ma non ancora applicata, come se dovesse essere una mozione a tradursi in una proposta o disegno di legge. L’argomento è semplicemente risibile sull’unico piano su cui andrebbe giudicato: quello del regolamento parlamentare.

In realtà, gli aventiniani si sono sfacciatamente sottratti all’approvazione di un documento della maggioranza di governo, di cui vogliono le poltrone occupate dal Pd ma non i vincoli con gli alleati. Vecchie storie. E soprattutto hanno voluto lanciare un’altra sfida, per quanto siano divisi fra di loro, al nemico di turno. Che non è più Silvio Berlusconi, anche per le condizioni in cui egli si trova sotto vari aspetti, e neppure Beppe Grillo, o Matteo Salvini, ma un altro Matteo: Renzi. Il quale potrà fare ai suoi avversari interni tutte le concessioni possibili nei provvedimenti sul tappeto ma non saranno mai sufficienti se non accompagnate con la sua rinuncia ad almeno una delle due cariche che ricopre: presidente del Consiglio e segretario del Pd. Il no referendario alla riforma costituzionale, che la sinistra piddina persegue cercando pretesti sulla legge elettorale per motivarlo, serve appunto a questo, non ad altro.

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Lina Palmerini, la notista politica del giornale della Confindustria 24 Ore, ha descritto la sinistra del Pd, proprio alla luce del comportamento parlamentare sulla riforma della riforma elettorale, come “divisa tra Renzi e D’Alema”, il rottamato ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pds-ex Pci ed altro ancora, che è diventato il maggiore e più esplicito antagonista del suo rottamatore, anche se lui –lo stesso D’Alema- si vanta ogni tanto di avere volontariamente rinunciato nelle ultime elezioni a ricandidarsi al Parlamento.

Forse Lina Palmerini è troppo generosa nel giudicare le minoranze di sinistra del Pd. Esse, più che fra Renzi e D’Alema, sono divise fra D’Alema e lo stesso D’Alema, cioè fra D’Alema come testa d’ariete per abbattere il segretario in carica del partito e D’Alema come protagonista o beneficiario del dopo-Renzi. E ciò un po’ perché esistono diversi candidati, palesi o occulti, fra gli avversari del segretario a quel ruolo e un po’ perché consapevoli che, quanto ad arroganza politica, che tutti insieme contestano a Renzi, l’ex presidente del Consiglio non scherza di certo.

Il quadro ormai è così chiaro nel Pd, grazie allo stile cui hanno rinunciato i critici e gli avversari di Renzi, che dal giornale più intelligentemente, o furbescamente, schierato col presidente del Consiglio – Il Foglio fondato da Giuliano Ferrara – il direttore Claudio Cerasa lo ha invitato a svegliarsi. A smetterla cioè di fare o di promettere concessioni a chi ne vuole solo la fine. A non diventare “da predatore a preda”. E a tornare a “personalizzare” il referendum sulla riforma costituzionale perché in ogni caso quella è la sua partita decisiva, sia che l’ammetta pubblicamente sia che finga di ignorarlo per seguire i suggerimenti alla prudenza datigli da amici più o meno autorevoli, a cominciare dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

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A proposito di Giorgio Napolitano, sarebbe forse il caso ch’egli smettesse di dare pubblici consigli, per quanto in buona fede, cioè con le migliori intenzioni di questo mondo, a Renzi. Vedo che ora il presidente emerito, pur capendo lo stato d’animo e forse anche gli interessi politici ed elettorali, o referendari, del presidente del Consiglio ha storto il muso, con una intervista al Corriere della Sera, per la polemica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, col presidente francese François Hollande e, più in generale, con l’Unione Europea sui temi dell’austerità ormai asfissiante e dell’immigrazione scaricata quasi tutta sull’Italia.

Non è piaciuto a Napolitano quel “facciamo da soli” gridato da Renzi a Bratislava, Roma e New York. In alternativa, per evitare di trovarsi affiancato, sia pure su una linea opposta, all’intransigenza dell’ungherese Viktor Orbàn, che preferisce i muri all’accoglienza, Napolitano ha suggerito a Renzi di aiutare il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker a contenere il Consiglio Europeo. Dove le danze sono dettate dai governi nazionali, e quindi prevale alla fine la Germania.  Come se Juncker potesse davvero resistere alla Merkel. Via, presidente. L’unico effetto di questi consigli è di indebolire all’esterno la posizione di Renzi, dando l’impressione ch’egli nel suo Paese stia perdendo la fiducia anche dei sostenitori di un tempo.

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Due parole infine, ma proprio due, anche sullo stile della sindaca di Roma Virginia Raggi e dei suoi compagni di lotta, più che di governo.

Si può anche essere contrari alle Olimpiadi a Roma nel 1924. Si può anche essere convinti ch’esse siano più un’occasione di sprechi e di furti che di investimenti e di crescita, specie nelle condizioni in cui la sindaca grillina ha ereditato il Campidoglio. Si può anche invocare a difesa del no gli impegni in questo senso, pur ambigui, assunti in campagna elettorale. Ma quando la signora Raggi si sottrae al confronto con la controparte, costituita dal presidente del Coni, e lo lascia in anticamera per falsi impegni istituzionali, visto che si trattava solo di un pranzetto in trattoria con amici, il torto diventa marcio. Se manca lo stile, manca tutto il resto.

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