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Perché voterò No al referendum costituzionale

La data del referendum sulla riforma costituzionale, come ben sappiamo, è finalmente stabilita. Il 4 dicembre i cittadini italiani si pronunceranno sul pacchetto del governo Renzi, a dieci anni esatti dal progetto presentato dal governo Berlusconi. Il paragone tra le due proposte è pressoché impossibile, perché si tratta di due idee di modifica profondamente diverse nei principi, negli obiettivi e nei contenuti. Preparandoci ad una campagna elettorale durissima che presto entrerà nel vivo, sembrano esserci molti dubbi e soprattutto grande confusione.

Non si tratta tanto di un caos determinato dagli argomenti, che possono essere legittimamente accolti o respinti, anche perché i temi sono comunque noti e lo saranno sempre di più, quanto semmai dal complesso significato politico ed istituzionale da attribuirgli.

Facciamo un passo indietro. La nostra Costituzione, in vigore dal 1946, compie settant’anni. Il contesto storico in cui nacque è ormai distante dai problemi e dalle sfide che l’Italia deve affrontare nel presente. L’Assemblea Costituente era divisa allora tra partiti ideologici compatti e contrapposti, che trovarono l’intesa su un’unica finalità: creare le basi istituzionali per uno Stato che non riproducesse più le condizioni che avevano fatto nascere e prosperare il Fascismo. La comune persuasione fu che Mussolini aveva governato per vent’anni con un forte consenso democratico, trasformatosi poi in una dittatura. Perciò i Padri optarono per un sistema bicamerale, ampiamente rappresentativo della pluralità, con un esecutivo fortemente vincolato al legislativo, e un governo non eletto direttamente dal popolo.

Non ci vollero molti anni per capire che la forma di Stato andava ritoccata, ma era indispensabile attendere un cambiamento anche internazionale che rendesse possibile, con la fine della logica di Yalta, un ammodernamento che rinforzasse il Governo e snellisse il Parlamento. Il fallimento di tutti i tentativi di riforme che dai primi anni ’80 si sono ripetuti fino ad ora sono stati causati dalla riluttanza della sinistra ad accogliere il presidenzialismo o il premierato e dall’intransigenza con cui a destra si indicava in tale passaggio la vera miglioria necessaria.

Ebbene, il vero punto di incontro sarebbe dovuto avvenire in un bilanciamento tra i poteri dello Stato, in uno snellimento del numero dei deputati e dei senatori, magari uniti ad un’attenuazione del bicameralismo perfetto, con un corrispondente rafforzamento dell’esecutivo e una sua diretta eleggibilità. Purtroppo, niente di fatto. La riforma Berlusconi, che conteneva tra infinite contraddizioni questi obiettivi, è stata bocciata dagli elettori e nessuno ha pensato di rimettere in piedi una Bicamerale che già aveva fallito negli anni ’90, ma che era giunta alle stese conclusioni.

L’originalità di questa nuova riforma Renzi è che il dualismo Parlamento-Governo viene aggirato attraverso un superamento parziale del bicameralismo, con il quale solo la Camera resterà elettiva e sarà incaricata di dare la fiducia all’esecutivo. Mentre il Senato diviene organo rappresentativo delle autonomie locali. La domanda da porsi è la seguente: è un risultato che risolve i difetti presenti nella nostra Costituzione?

Se il vero grande problema è quello di garantire la stabilità, allora certamente togliere democrazia, rendendo una sola Camera responsabile della vita di un Governo, avvantaggia la maggioranza. Anche se non vi fosse l’Italicum, che oggettivamente cancella il ruolo dell’opposizione, comunque un ramo solo del Parlamento rappresenterebbe una semplificazione. Se invece il vero grande problema è la debolezza del Governo e non il pluralismo rappresentativo del Parlamento, allora questa riforma si palesa come un escamotage intelligente, ma non come una soluzione utile e convincente.

In realtà, occorre tener presente che non si può ovviare ad un forte frazionamento del voto in un’eccessiva quantità di partiti, tema squisitamente politico, con una riduzione legale della sovranità popolare nell’ordinamento giuridico e costituzionale. Il primo riguarda infatti come gli italiani votano, il secondo invece quanto pesano formalmente i voti degli italiani. Se si considera poi che il cuore dell’anomalia sta esattamente nella dualità pesante che vi è nel nostro Stato tra la Repubblica legale e la democrazia sostanziale, ecco che la riforma Renzi appare più come una controriforma che come una riforma vera e propria.

Invece di avvicinare lo Stato alla nazione, superando il gap di rappresentatività del sistema, rendendolo appunto più democratico, qui si opta per una neutralizzazione del pluralismo, per una riduzione della sovranità popolare, che non eleggerà più il Senato, senza un rafforzamento del Governo che opererà per cinque anni tranquillamente, con un potere assoluto o comunque privo di opposizioni.

Questa riforma insomma rende quasi esclusivo il potere della maggioranza senza permettere maggiore efficacia di governo e maggiore controllo dei cittadini. In tal senso, è del tutto evidente che la riforma dell’Italicum pare indispensabile e dovrebbe essere fatta in precedenza rispetto al referendum, perché così stando le cose non ci sono garanzie che venga approvata una legge elettorale migliore dopo l’eventuale varo della riforma.

Non è un caso perciò che, successivamente ad alcuni pronunciamenti in senso contrario, anche l’attenzione estera ha stemperato i propri favori. Il Financial Times ha pubblicato un articolo ieri dove si sollevano le stesse obiezioni qui esposte, confutando gli elogi che in precedenza erano stati fatti dall’ambasciatore americano. D’altronde la confusione in atto è visibile anche in tanti commenti che collegano il cambiamento eventuale della Costituzione alla ripresa economica o al ruolo internazionale dell’Italia, quando in realtà si tratta di cose molto diverse e assolutamente estranee le une alle altre.

In sintesi si può dire che il 4 dicembre non si voterà per un aumento del tasso di democrazia nella nostra vita politica, ma se si è d’accordo o meno che la nostra Repubblica si dia maggiore stabilità anche a costo di rendere meno attivo direttamente l’elettorato e meno incisiva la volontà dei cittadini nella vita politica. Un’opzione che non a caso sta spingendo allo scetticismo, oltre i citati osservatori internazionali, anche tutte le forze politiche di opposizione e una parte consistente della minoranza PD.

Votare contro, difatti, è dire no ad un cambiamento che provocherebbe un’alterazione sostanziale della nostra tradizione giuridica, rendendo il nostro Stato meno democratico e meno rappresentativo della molteplicità di voci che esprimono la sovranità effettiva del popolo italiano, senza che si realizzi per nulla una maggiore governabilità.

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