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Come può un repubblicano Usa votare Donald Trump?

Trump

Perché un repubblicano americano, per di più di ispirazione conservatrice, non può votare Donald Trump è talmente evidente da non ammettere spiegazioni. Basta leggere i giornali. Il suo complessivo atteggiamento, al di là delle cose che dice e di come le dice, è esattamente l’opposto di quel che ci si attenderebbe da un candidato alla presidenza del Grand Old Party. Ma se adesso i repubblicani sono sull’orlo del baratro, grazie a “The Donald”, la colpa non è certo del discusso ed eccentrico magnate. È colpa dei vertici del partito, dell’establishment che lo governa, della confusione che nel suo ambito regna sovrana almeno dai tempi del secondo Bush. Non una linea politica accettabile, neppure uno straccio di elaborazione culturale, le equivoche vicinanze con i cosiddetti “neo-con” reclutati tra i superstiti dell’estrema sinistra di Berkeley degli anni Settanta e Ottanta, il mancato rinnovamento della leadership: sono questi gli elementi che hanno portato alla candidatura di Trump. E non possono pretendere di scusarsi asserendo che non immaginavano come si sarebbe comportato: hanno avuto tutto il tempo per scaricarlo, talmente tante sono state le sue sortite che consigliavano di allontanarlo ed indurlo a lasciar perdere: si sarebbe sempre potuto presentare come indipendente. Ora tutti dicono che è tardi. Ma è anche impossibile che tra meno di un mese Trump – dopo essere stato sconfessato dagli esponenti più in vista del mondo repubblicano (senatori, deputati, governatori, intellettuali) – possa contendere la Casa Bianca ad Hillary Clinton.

Le sue “uscite” sessiste, il suo passato pubblico e privato messo in piazza negli ultimi mesi, le sue dichiarazioni così sopra le righe e perfino il suo programma (a volerlo chiamare così) non sono compatibili con lo “stile” repubblicano, oltre che con la tradizionale politica  del partito, e questo dovevano saperlo tutti coloro che lo hanno blandito, appoggiato, difeso, giustificato fino a trovarsi nella imbarazzante condizione di respingerlo ed invocare il suo vice-presidente designato, che pochi conoscono, Mike Pence, come candidato. A parte il fatto che è giuridicamente difficilissimo, ma politicamente è addirittura suicida. Come lo si spiega a milioni di elettori che Trump dopo che ha  sbaragliato fior di concorrenti lo si elimina dalla scena?

I repubblicani, avendo rinunciato da tempo alle loro radici, non sanno più che pesci pigliare.

In Italia, per chi poco ne sa del “presidenziabile” palazzinaro, circolano da qualche mese due libri che introducono al suo “universo”: Perché vince Trump. La rivolta degli elettori e il futuro dell’America di Andrew Spannaus, pubblicato da Mimesis e La febbre di Trump. Un fenomeno americano di Mattia Ferraresi, edito da Marsilio. Da essi si capisce come è perché Trump ha “terremotato” l’establishment e l’elettorato in un colpo solo, profittando della crisi americana che non è soltanto economica, come in tutto l’Occidente, ma anche di valori e di identità. Ma si comprende pure che il candidato repubblicano non è il  “rivoluzionario” che vuol far credere di essere poiché non è minimamente  dotato di una cultura politica di riferimento. Parla alla pancia della gente enfatizzando le paure di un ceto medio che si sente assediato dall’incertezza sociale, dall’immigrazione, dall’incombente esclusione dalla vita economica in seguito agli sviluppi della devastante “finanziarizzazione” che ha messo le risorse nelle mani di pochi a svantaggio dei salariati e dei risparmiatori.  Ma non ha mai precisato il suo programma, tanto che il 9 maggio scorso, sul Wall Street Journal, Bret Stephen, vicedirettore della pagina editoriale, si chiedeva: “Dove sono le indicazioni che come presidente il signor Trump appoggerà le idee conservatrici sulle tasse, sul commercio, sulla regolamentazione, sul welfare, sulla politica sociale, giudiziaria ed estera, e tantomeno meno sul comportamento personale?”. Da nessuna parte. Trump, infatti, è un repubblicano senza essere conservatore. E lui  stesso rivendica questa singolare  particolarità al punto che può presentarsi come personaggio dai mille volti, incoerente e contraddittorio, ma gradito, almeno nella prima fase della campagna elettorale, ad una parte degli americani proprio perché “spiazzante”. Per i motivi opposti è invece sgradito all’establishment, al “sistema”. A Playboy nel 1990 dichiarò di essere conservatore, ma che avrebbe avuto più successo come candidato democratico. Abortista ed anti-abortista, contrario al matrimonio gay salvo aggiungere che “se due persone si piacciono, si piacciono”, si è detto favorevole alla “copertura sanitaria universale” aggiungendo, con sovrano disprezzo della logica, di voler favorire una riforma ispirata ai principi del libero mercato.

Poteva piacere al gruppo dirigente del partito per il quale corre? Certamente no, ma lui l’ha messo in un angolo ed il Grand Old Party, con i suoi ex-presidenti ed i candidati bruciati, rischia di naufragare, non soltanto per il ciclone-Trump quanto per non essersi saputo riformare dopo la fallimentare presidenza Bush, l’interventismo scriteriato, l’esportazione della democrazia tanto cara ai citati ex-trozkisti “neocon”. I repubblicani, insomma, hanno snaturato la loro fisionomia perché hanno messo da parte quel conservatorismo “classico” che li aveva resi centrali nella politica americana post-kennedyana, grazie a uomini come Barry Goldwater, Russell Kirk, Pat Buchanan. Quest’ultimo, caposcuola dei “paleocon”, riassumeva la visione tradizionalista conservatrice con queste parole: “Siamo per la vecchia chiesa e la vecchia destra, anti-imperialisti e anti-interventisti, miscredenti della Pax Americana”. Ferraresi osserva: “Pessimisti circa la natura umana, dunque scettici verso qualunque progetto utopico, erano contrari ad una politica estera espansionista che avrebbe fatalmente trasformato la repubblica cara ai Padri fondatori in un impero possente e senza volto, disancorato dalla tradizione europea alla quale sentivano di appartenere”.

Un universo concettuale ed ideale dal quale Trump è lontanissimo. Ed è ancor più distante dal mondo repubblicano che pur dice di voler rappresentare – senza beninteso essere conservatore! – anche perché, come nota Spannaus, “Non rispecchia le loro idee, si colloca al di fuori dal perimetro delle forze che hanno  gestito il Paese negli ultimi decenni. Dunque per i dirigenti repubblicani – e anche per i democratici più centristi e legati al sistema di potere attuale – non basterebbe che Trump smorzasse i toni ed evitasse gli insulti e le proposte provocatorie; c’è un problema più serio, una minaccia mortale al modulo operandi della politica contemporanea”.

A Trump, è fin troppo chiaro, che null’altro interessa se non il proprio successo. Se dovesse soccombere, come i sondaggi ritengono, in molti tireranno un sospiro di sollievo; se dovesse vincere – ma è pura esercitazione accademica – in tanti resterebbero increduli, ma nessuno, neppure i sostenitori, sarebbero certi di aver fatto la cosa giusta. Del resto, dare fiducia a Hillary Clinton significa riconsegnare gli Stati Uniti alle vecchie oligarchie che ne hanno favorito la decadenza.

Di indiscutibile c’è solo la catastrofe del Grand Old Party. E, malauguratamente, all’orizzonte non si intravede un Barry Goldwater in grado di ricostruirlo. Il conservatorismo americano vive la sua stagione più oscura.

 

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