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Vi racconto la triste commedia della sinistra Pd su Italicum e referendum

Il grande Eduardo De Filippo definì la sua forse più celebre commedia, Natale in casa Cupiello, “un parto trigemino dopo una gravidanza di quattro anni”. Ce ne aveva messo di tempo, il pur bravissimo artista, per mettere bene a punto i tre atti del suo capolavoro e i personaggi che ne animano le scene: Luca, chiamato anche Lucariello, da lui stesso recitato, la moglie Concetta, il fratello Pasquale, il figlio Tommaso, chiamato anche Nennillo, la figlia Ninuccia, il genero Nicolino, l’amante Vittorio e un medico pietoso che cerca di nascondere al protagonista la gravità di un ictus che lo sta portando rapidamente alla morte. Di fronte alla quale il pestifero Nennillo si decide a dire al padre che gli piace il presepe da lui ostinatamente preparato ogni anno e che egli non aveva mai detto di apprezzare per partito peso con la storica domanda “Te piace ‘o presepio?” e l’altrettanto ostinata riposta “No”, e relativo cenno del capo. All’unico e pietoso sì del figlio, Lucariello si avvia agli ultimi respiri vedendo un enorme presepe nei cieli.

La trama è un po’ più complessa di come ve l’ho riassunta, al netto delle corna di Nicolino, della lettera di abbandono della moglie trattenuta da Concetta e finita lo stesso nelle mani del genero per un inconsapevole errore di Lucariello. Ma essa può bastare e avanzare per poterla applicare in qualche modo alla storia tragicomica del Partito Democratico. Le cui minoranze dicono ostinatamente no al cosiddetto combinato disposto della riforma costituzionale, sotto procedura referendaria, e della legge elettorale della Camera, chiamata Italicum e in vigore dal 1° luglio scorso, come Nannariello al presepe allestito dal padre. Un no con mille pretesti travestiti da ragioni, visto che non c’è idea o proposta di modifica della legge elettorale -ed anche di applicazione non ancora definita del metodo di selezione o elezione dei consiglieri regionali e sindaci chiamati a comporre il nuovo Senato- che riesca ad andare bene ai critici e avversari del segretario del Pd e presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che in realtà potrebbe guadagnarsi il sì solo in punto di morte politica. Che sarebbe però, nelle condizioni in cui è ridotto il paese, con i grillini alle porte del governo e il centrodestra dissolto e paralizzato da ambizioni di tutti contro tutti, anche la morte del Pd, orgogliosamente fondato solo nove anni fa da Walter Veltroni, fondendo i resti del Pci e della sinistra democristiana, per darsi una “vocazione maggioritaria”. Della quale si era avvertita la necessità dopo il fallimento di tutte le coalizioni di cosiddetto centrosinistra gestite, nell’ordine, da Romano Prodi, Giuliano Amato, Massimo D’Alema e di nuovo, e per ultimo, Prodi. Che aveva cominciato sventolando ramoscelli d’Ulivo nel 1996 e finì nel 2008 riavvolgendo tristemente, con lo scioglimento anticipato delle Camere, la bandiera dell’Unione improvvisata due anni prima.

Le circostanze vogliono che l’epilogo di questa tragicommedia politica potrà consumarsi con l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre: il mese di Natale. Il Natale, appunto, di memoria eduardiana.

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Con gli anni, si sa, i tempi in qualche modo si accorciano. Si fa prima a fare tutto. Si riducono anche le distanze fra le varie generazioni perché queste scorrono più veloci. Eduardo De Filippo impiegò quattro anni per “il parto trigemino” del suo Natale in casa Cupiello, recitato per la prima volta nel 1931. Il Pd ha impiegato solo tre ore per chiudere con un sostanziale fallimento il tentativo compiuto da Renzi di raggiungere un onorevole compromesso con le minoranze, che non hanno partecipato alla votazione finale, per cui la relazione del segretario e le sue proposte se l’è approvata all’unanimità la sola maggioramza: “senza voti contrari o astensioni”, ha annunciato il presidente del Pd Matteo Orfini non rendendosi conto di apparire con quelle parole una specie di attore fuori organico della commedia di Eduardo.

Tutti nel Pd sembrano marciare più o meno allegramente –come “la gioiosa macchina da guerra” del Pds-ex Pci allestita nel 1994 da Achille Occhetto e sconfitta nelle urne- verso la loro dissoluzione, sia che Renzi riesca a recuperare lo svantaggio che gli attribuiscono i sondaggi e a vincere il referendum, sia che lo perda e quelli di sinistra del no, per quanto vincenti con l’aiuto dei grillini e della destra, gli presentino il loro salatissimo conto.

A quelli del no, sempre no, irriducibilmente no, arrivati sfrontatamente alla riunione della direzione col rifiuto annunciato dall’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani di prendere sul serio le proposte di Renzi, prima ancora di sentirle esporre e spiegare, ormai interessa soltanto lo scalpo del segretario del partito e presidente del Consiglio, anche a costo di finire con lui pure loro, secondo le abitudini suicide di certe sette.

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Le minoranze del Pd non si sono paradossalmente fidate neppure di se stesse, essendo loro stato offerto da Renzi di partecipare ad una commissione o delegazione di partito incaricata di mettere bene a punto modifiche alla legge elettorale condivise il più possibile all’interno e poi verificare le opinioni e la disponibilità delle altre forze politiche, non avendo il partito i numeri per fare tutto da solo in Parlamento, per quanto alla Camera, ma solo lì, disponga di un grande premio di maggioranza guadagnatosi con le vecchie e ormai in gran parte decadute regole. E tutto ciò nella prospettiva di un percorso parlamentare che non potrà cominciare prima del referendum del 4 dicembre per ragioni tecniche e politiche: tecniche mancando ormai meno di sessanta giorni alla verifica referendaria della riforma costituzionale, politiche perché ci sono partiti, a cominciare da quelli dell’ex centrodestra, che hanno già annunciato di non volere negoziare prima del referendum. Essi hanno evidentemente la convinzione di poter festeggiare la vittoria del no ed avere poi un maggiore potere contrattuale. Che è poi la stessa convinzione dei grillini e, comicamente, delle minoranze di un Pd disastrato.

La tattica, insomma, prevale in tutti sulla strategia, anche a costo di buttare nel cestino addirittura la disponibilità di Renzi a disciplinare la formazione del nuovo Senato con la doppia scheda elettorale proposta dalle minoranze durante la discussione parlamentare sulla riforma: una per l’elezione dei consigli regionali e un’altra per la scelta, fra i candidati agli stessi consigli regionali, di quello destinato a fare anche il senatore. Pure il Senato diverrebbe o rimarrebbe quindi elettivo, come reclamato da tantissime parti e finalmente riconosciuto giusto da Renzi. Ma il presepe a lor signori non piace.

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