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Perché io, filosofo, non comprendo i Nobel della letteratura a Dylan e Fo

Dario Fo

Ne abbiamo lette tante in questi giorni. E, in effetti, la coincidenza verificatasi giovedì scorso è veramente particolare: un vincitore di premio Nobel per letteratura è morto proprio il giorno in cui l’accademia svedese assegnava il premio per l’anno in corso. Ma, soprattutto, entrambi i vincitori, Dario Fo, che aveva avuto il riconoscimento nel 1997, e Bob Dylan, che lo ha ricevuto quest’anno, sono Nobel atipici: accomunati dal fatto che, vincendo, hanno messo in crisi, a distanza di venti anni l’uno dall’altro, il nostro comune concetto di letteratura. Di questo si è pertanto parlato in questi giorni, molto più che del valore intrinseco e del merito dei due artisti (che è poi ciò che di cui si discute solitamente in questi casi).

Ne abbiamo letto tante, dicevo, e in verità anche molto diverse: ognuno ha la sua idea di quel che è accaduto, di ciò che premiando un uomo di teatro e un cantante si è voluto dimostrare. Più in generale si è discusso dell’essenza di quell’oggetto che chiamiamo “letteratura”. Ora, senza presunzione e cercando di evitare vacui intellettualismi, credo che la parola di chi si occupa di filosofia possa dare un contributo alla riflessione e chiarificazione concettuale. La filosofia, infatti, proprio questo fa: lavora sui concetti e sulle “essenze”.

Dal punto di vista dell’essenziale, cioè della forma espressiva, possiamo senza dubbio dire che l’arte non sopporta restrizioni contenutistiche: né grammatiche o precettistiche, né modalità materiali di espressione. Tutto può essere arte, se l’arte c’è: una canzone, un fumetto, un’opera narrativa o poetica, persino un serial televisivo o qualsiasi altra cosa possibile e immaginabile. L’arte, d’altronde, è gratuita nel suo darsi, ed è completamente autonoma da altri fini che non siano i propri.

A diverso modo, si potrebbe però obiettare, sia Fo sia Dylan sono stati artisti “impegnati”. Fo, in particolare, con le sue opere si è proposto di fare politica in senso stretto. Eppure, indipendentemente dal risultato pratico ottenuto, non è la politica il metro con cui si può o si deve giudicare il loro valore artistico. Di fronte al fatto artistico, tutto è materiale e tutto si trasfonde in un’opera d’arte più o meno riuscita. Tutto, di fronte all’arte, perde il suo significato specifico, significato che ovviamente conserva in altri ambiti umani. Si può essere immorali, lazzaroni, ubriaconi, e, nonostante ciò o anzi proprio perciò, grandi artisti. “Artisti maledetti”, ma pur sempre artisti. E lo stesso vale se si è uomini pii. L’arte si giudica secondo i propri principi, in piena autonomia.

Nel giudizio sull’arte ognuno di noi ricrea in qualche modo il processo che ha portato all’espressione l’artista. E vi immette il proprio gusto, la propria idea di Bello. La quale, come diceva Kant, non è universale, non almeno nel senso in cui lo sono i concetti e le categorie, necessari e necessitanti, ma “pretende all’universalità”: cioè a farsi regola generale per tutti. Il fatto è che nella creazione e nella fruizione del fatto artistico, gli uomini intervengono con tutta la propria personalità: con il loro carattere, la loro sensibilità e anche con i loro pregiudizi. Ed è qui, a questo livello del discorso, che anche le idee politiche di ognuno, dell’artista come del fruitore, possono giocare un ruolo. Indiretto però.

Ciò che, più in generale, entra in gioco è il cosiddetto concetto dell'”autonomia dell’arte”. Un concetto che ha anche, e direi soprattutto, un valore politico, in quanto esso è negato, fra l’altro, proprio da chi, come Fo, fa riferimento a un’ideologia illiberale quale quella comunista. Per questa ideologia arte e “impegno” sono un tutt’uno e l’artista deve mettersi al servizio non del Bello, che è sempre interessato, ma del Partito o della Classe, cioè di interessi ben corposi e identificabili. Non dobbiamo però farci impressionare da questa asimmetria fra il liberalismo e le ideologie nemiche della “società aperta”: la superiorità del primo consiste anche nel fatto che giustifica persino l'”arte impegnata” quando la riconosce come arte. E lo fa pur essendo consapevole del fatto che se, il risultato politico di quell’impegno fosse positivo, quegli artisti non concederebbero agli avversari la pariglia.

Lasciamo ovviamente giudicare agli altri, ai critici in primis, se quella di Fo e Dylan è o meno grande arte: non è questo l’oggetto del mio intervento. Qui voglio solo sgombrare il terreno dal presupposto che, non solo in fatto ma anche in principio un'”arte impegnata” non può assurgere a vera grandezza. Vi può invece nella misura in cui lo stesso “impegno” si trasvaluta in qualcosa d’altro e assume, forse involontariamente, la dimensione del disinteressato. Meno convinto, anzi per nulla, sono invece del fatto che il concetto di letteratura possa slargarsi, come ci suggeriscono gli accademici, così tanto da inglobare anche scritture che, per sé prese, non hanno la dignità che assumono quando sono recitate o cantate. Cosa che, a mio avviso, è particolarmente evidente nei testi teatrali di Fo (e non ovviamente in quelli di un Moliere o di un Pirandello, per fare il nome di due giganti).

Certo letteratura, teatro, musica sono distinzioni empiriche, concetti che non hanno un valore filosofico come lo ha il concerto di arte che tutti li accomuna. Ma, se non rispettiamo il linguaggio, contribuiamo alla confusione generale, e questo non ci è affatto utile. È un suggerimento pratico il mio, ma mi sento di dire che delle due l’una: o chiamiamo il Nobel non più “della Letteratura” ma “dell’arte”, oppure riconosciamo sì il valore artistico (se ce l’hanno) alle opere di Fo e Dylan ma non li premiamo perché in questo caso è necessario ragionare solo sulla parola scritta e non su quella orale.

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