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La mostra sull’Msi? Tanta nostalgia, poco avvenire

Per riprendere il titolo della mostra organizzata per i 70 anni dell’Msi, nella destra italiana sembra esserci molta più nostalgia che avvenire. L’esposizione curata da Giuseppe Parlato, Simonetta Bartolini e Mauro Mazza per conto della Fondazione Alleanza Nazionale presenta infatti – come è clamorosamente emerso dalla presentazione immortalata nella galleria di Umberto Pizzi – tutti i caratteri della retroflessione, della mistica del ghetto, della celebrazione funeraria che invalidano la destra sin dalla sua nascita: l’allestimento frontale-analogico, i contenuti celebrativi, i toni retorici e soprattutto la location, quella stanza su via della Scrofa a Roma che i militanti ancora ricordano come camera ardente di Pino Romualdi e Giorgio Almirante.

Persino Marcello Veneziani, presidente del Comitato della Fondazione An e deus-ex-machina di “Nostalgia dell’avvenire”, ha concesso un omaggio all’atmosfera lugubre con un esplicito ricordo delle salme dei due leader. A testimoniare l’affetto e il rimpianto che ancora circondano Almirante, poi, il fragoroso applauso che ne ha accolto immagine e voce durante la proiezione del video che accompagna la galleria espositiva e quello, appena più timido, all’ingresso in sala della vedova Donna Assunta, immarcescibile testimone e coscienza critica delle evoluzioni e delle convulsioni post-fasciste.

(CHI C’ERA SECONDO PIZZI ALLA MOSTRA SULL’MSI. TUTTE LE FOTO)

Veneziani, nella sua presentazione, ha cercato anche timidamente di virare sull’attualità: “L’Msi è stato il primo partito a porre la questione della partitocrazia e della questione morale, prima ancora che lo facesse Enrico Berlinguer. Il partito dell’onestà”, ha detto. Una primogenitura e una caratura rivendicate – è ovvio – non tanto rispetto all’allora leader comunista, quanto agli odierni grillini: come a dire che al posto dei Cinque stelle, quale alternativa di governo, oggi potrebbero esserci gli ex missini. Il pensiero di tutti sarà però sicuramente corso alla pessima prova che, sul piano della qualità politica ma anche etica, la destra ha fornito quando le è capitato di “andare a comandare”, per dirla con Fabio Rovazzi.

Il parterre del partito era quasi al completo: Maurizio Gasparri scatenato nei selfie, Ignazio La Russa compito nel ruolo di chaperon di Assunta, l’onnipresente Italo Bocchino, Domenico Gramazio, più noto nell’ambiente come Er Pinguino e papà di Luca, coinvolto nel processo di Mafia Capitale. E tante altre facce note, da Francesco Aracri a Gennaro Malgieri, Adalberto Baldoni, Amedeo Laboccetta, fino ad Adolfo Urso, seduto in ultima fila.

La faccia “come il c…” alla quale si riferiva la fronda presente alla mostra era invece quella di Gianfranco Fini, piazzatosi in prima fila fino a che lo scontento si è limitato ai mugugni dei militanti più duri e puri – presenti tra gli altri gli inossidabili “rautiani” Romolo Sabatini e Nazareno Mollicone – ma defilatosi quando la critica è esplosa nel rumoroso ingresso di Maria Antonietta Cannizzaro, detentrice ufficiale del logo Msi, con relativo drappello di ragazzotti e bandiere al seguito.

(CHI C’ERA SECONDO PIZZI ALLA MOSTRA SULL’MSI. TUTTE LE FOTO)

Fini oggi è sicuramente il più odiato dagli ex neofascisti per avere, prima come traghettatore e traditore di Fiuggi, poi con il divorzio da Silvio Berlusconi, dilapidato il patrimonio politico ed elettorale del partito. Un’analisi impietosa e talvolta maramaldesca, speculare al consenso encomiastico che aveva accompagnato il leader quando le cose andavano bene. Del resto quello missino – chi lo abbia frequentato lo sa bene – è un ambiente più emotivo che razionale, nel quale i sentimenti e la memoria contano più delle ragioni e delle analisi.

Il problema di trasformare nostalgie e mal di pancia destriste in un progetto credibile per l’Italia globalizzata degli anni Duemila, peraltro, nasce non ora ma con lo sdoganamento cominciato ai tempi di Bettino Craxi, Francesco Cossiga e Sandro Pertini e compiuto dal Cavaliere con l’endorsement a favore di Fini candidato sindaco di Roma. Il simbolo che la mostra celebra simboleggia l’ara del Duce che anima la fiamma tricolore: aperte le porte del “ghetto”, esaurita per ragioni storiche e anagrafiche la necessità di testimoniare la fedeltà al Ventennio e alla Repubblica sociale, i missini hanno faticato a trovare un posto e un ruolo. Uno smarrimento di cui l’Inno a Roma che rimbombava nella stanza cieca di via della Scrofa, l’altro giorno, era la perfetta colonna sonora.

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