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L’inossidabile leggiadria della signora Fantozzi

Alzi le mani chi, avendo l’anagrafe sufficiente, vedendo Milena Vukotic non la pensa come la remissiva signora Pina Fantozzi. La celeberrima icona cinematografica viene ora fatta a pezzi dalla “Regina Madre” che l’attrice porta in scena fino al 30 ottobre a Roma, al Teatro dell’Angelo: una donna perfida, impietosa nel suo metodico lavoro di distruzione psicologica, caratteriale ed esistenziale del figlio, il quale approda al mezzo secolo con una carriera da scrittore e giornalista e un matrimonio entrambi infranti dalla sua insicurezza cronicizzata.

Due ore di pièce (un po’ eccessive: nel secondo tempo una sforbiciata avrebbe aiutato) nelle quali la coppia ingaggia un duello continuo che vede l’uomo, un efficacissimo Antonello Avallone, regolarmente sconfitto. Qualunque gesto e pretesto è buono: un maglione da cucire, un bicchiere d’acqua. All’inizio ci si ride e sorride, man mano che si procede nella storia (nella finzione si tratta di due mesi, ma il tempo appare immobilizzato come la scenografia) gli atout drammatici della mamma prevalgono su quelli melodrammatici e, nel finale, la distruzione psico-fisica del figlio è completata.

Un capovolgimento contro natura, visto che all’apertura del sipario sembrava essere lei, malata sedicente o reale non sappiamo, a dover morire. Ma anche una conclusione molto naturale, poiché il testo del napoletano Manlio Santanelli, ammirato persino da Eugène Ionesco, pur se scritto e mantenuto dalla regia negli anni ’80 del secolo scorso, è di un’attualità inossidabile: coglie una problematica della psiche umana che solo il luogo comune e sacro dell’amore materno impedisce di affrontare realisticamente. Anche se non fino all’esito fatale dello spettacolo, ammettiamolo, spesso la madre toglie al figlio molta della vita che gli dona.

Una spietata vendetta, come attrice, Milena Vukotic la consuma anche contro le sue 81 primavere: si muove in scena con una leggerezza, anzi con una leggiadria che può essere spiegata soltanto con la sua formazione da ballerina e con la longevità tipica dei teatranti. A confermare questa seconda, tra le altre, la perfetta forma di Lucia Poli, presente in sala alla prima per ammirare la collega con cui sta portando in tournée un adattamento delle “Sorelle Materassi” di Aldo Palazzeschi.

Antonello Avallone, che di “Regina Madre” è anche regista, è noto al pubblico teatrale per le pièce ispirate a Woody Allen e per i testi napoletani: nel cartellone del Teatro dell’Angelo, di cui è direttore, tra diversi suoi spettacoli, compare tra l’altro un “Berretto a sonagli”. Grazie a un’immedesimazione somatica e gestuale completa con il fallimentare, depresso e deprimente personaggio (lo vediamo trascinarsi sul palco con i pantaloni lenti che finiscono sotto le ciabatte), riesce a reggere il confronto con la protagonista senza finire alle corde come sparring partner, e tanto basta a dirne bene. Terzo personaggio, evocato solo dalle citazioni e dalle telefonate degli altri due, è la sorella-figlia cui tocca di condividere il peso di tanta madre. Il padre-marito continuamente evocato dalla vedova, è chiaro sin dall’inizio, è invece solo un archetipo, un mito, un deus-ex-machina utile all’annichilimento del figlio.

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