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Vi racconto gli strepitii del Fatto di Marco Travaglio contro il Sì di Mattarella al referendum

Non avevo dubbi, conoscendo ormai gli amici del Fatto Quotidiano come le mie tasche. Tutto è prevedibile nelle loro reazioni quando imbracciano o inventano una causa: l’altro ieri la guerra senza quartiere a Silvio Berlusconi, ieri la guerra a “Re Giorgio”, attardatosi al Quirinale – diavolo di un uomo – per nove anni di fila, non essendogli bastati i sette del primo mandato ed avendo trescato, secondo i suoi avversari, per una rielezione che è stata un inedito assoluto nei 70 anni ormai della storia della Repubblica italiana, e oggi contro quel giovane toscanaccio impenitente di Matteo Renzi.

Il presidente del Consiglio, e per giunta anche segretario del Pd, o viceversa, ha avuto l’ardire di rottamare buona parte della sinistra di provenienza comunista, di rivitalizzare per un po’ col famoso Patto del Nazareno l’odiato uomo di Arcore finalmente condannato in via definitiva per frode fiscale ed espulso perciò dal Senato, di fare barba e capelli alla vecchia Costituzione in vigore dal 1948, ancora amata dai vari Pier Luigi Bersani come la più bella del mondo, e – addirittura – di sfidare di tanto in tanto gli illustrissimi e potentissimi signori della Magistratura italiana. Che sono stati appena richiamati, fra l’altro, al dovere di fare più sentenze che scioperi, come quello minacciato contro una riforma del processo penale che ha la pretesa –pensate un po’- di fissare termini più stringenti alle indagini preliminari, visti i tempi troppo lunghi non solo dell’odiata prescrizione ma anche della permanenza dell’indagato di turno nelle condizioni di sospettato, a volte persino in custodia cosiddetta cautelare, senza uno straccio di rinvio a giudizio.

Adesso quell’imprudente e vanitoso di Eugenio Scalfari, come riferito subito da noi, incalliti lettori dei suoi articoli festivi, ma anche feriali, smanioso – debbono aver pensato al Fatto Quotidiano – di far conoscere le sue alte e molto gratificanti frequentazioni, ha spifferato il sì al referendum costituzionale del presidente nientemeno della Repubblica Sergio Mattarella. Un sì raccolto dal fondatore della Repubblica di carta sotto i soffitti e gli stucchi dorati del Quirinale, dove era arrivato non facendovi disordinata irruzione, anche perché l’età ormai non gli permetterebbe il passo del bersagliere, ma su cortese invito del padrone di casa, desideroso di fare “quattro chiacchiere” con cotanto ospite.

Ma come si permette Mattarella – debbono essersi chiesti, indignati, nella redazione del Fatto e dintorni – non solo di avere ma anche di esprimere un parere sul referendum di cui ha già avuto l’imprudenza di decretare lo svolgimento senza avere nulla da ridire su quel lungo e “truffaldino” quesito copiato pari pari, negli uffici della Corte di Cassazione, dal titolo furbescamente dato dal governo al disegno di legge di riforma costituzionale, e improvvidamente approvato dalle Camere insieme col testo?

Il quesito, spacciato per uno “spot”, e perciò impugnato col solito ricorso davanti alla magistratura ordinaria nella speranza che arrivi anche all’esame e alla bocciatura della Corte Costituzionale, è questo: volete dire sì o no alla legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale numero 88 del 15 aprile del 2016 concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel (che è la sigla del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e la revisione del titolo V della parte II° della Costituzione”?

Magari, è sul carattere ermetico di quel titolo V della parte II° della Costituzione, senza spiegare che si tratta delle competenze delle regioni e dei loro rapporti con lo Stato, che i presunti tutori della trasparenza e della comprensibilità del quesito referendario sottoposto agli elettori avrebbero dovuto e dovrebbero protestare e ricorrere. Ma le cose, nella nostra allegrissima Italia, al netto dei tanti e gravi problemi che ha, vanno alla rovescia. L’oscurità, o l’imbroglio, sta nelle parole chiare, che chiamano le cose come sono e vengono comprese dalla gente comune, non in quelle ermetiche, a capire le quali bisogna consultare qualche enciclopedia, o andare da un avvocato.

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Immagino le difficoltà che hanno avuto gli amici del Fatto Quotidiano a trovare di domenica qualcuno disposto o qualificato al Quirinale a rispondere alla loro affannosa richiesta e speranza di smentita delle confidenze del capo dello Stato scappate imprudentemente a Scalfari, in quella smania che ha di informare i suoi lettori e di assicurarli che lui è sempre dalla loro parte, e dalla voglia di essere messi al corrente di ciò che accade e che il loro giornalista di fiducia riesce a sapere grazie alle sue conoscenze e – perché negarlo? – anche alla sua autorevolezza. Che, come il buon vino, migliora invecchiando.

Alla fine i redattori di Marco Travaglio, se non lui in persona, qualcuno con cui parlare lo hanno trovato al telefono sul colle più alto di Roma. Ma, anziché una smentita, anzi la smentita, quella che si aspettavano e desideravano ardentemente per l’onore delle istituzioni e ancor più per la loro causa, naturalmente contraria alla conferma referendaria della riforma costituzionale, i poveretti si sono sentiti dire laconicamente e burocraticamente che “il presidente della Repubblica parla solo per atti ufficiali”. Ma questa non è una smentita, debbono avere obiettato, inorriditi, i miei amici e colleghi. Che hanno così cominciato ad avere l’atroce dubbio che Scalfari ci avesse azzeccato, diavolo di un uomo. Azzeccato e non scambiato lucciole per lanterne. E che magari il diabolico Mattarella avesse avuto anche piacere di affidargli quel messaggio da diffondere al pubblico. D’altronde, che differenza c’è, in fondo, fra la Repubblica dei mattoni che presiede il buon Mattarella e quella di carta fondata da Scalfari più di 40 anni fa e stampata ogni giorno che Dio mandi in terra?

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Il sospetto deve essere andato crescendo di ora in ora. E col sospetto anche lo sgomento, aggiuntosi a quello procurato a lor signori del no dal sì appena raccomandato oltre Oceano agli elettori italiani da un altro e più noto presidente nel mondo: il capo della Casa Bianca Barack Obama. Il quale era tanto bene informato delle cose italiane che, al termine della cena offerta agli invitati per il commiato come presidente degli Stati Uniti, ha rincorso in particolare un ospite per salutarlo con particolare cordialità. Indovinate chi? Ma lui, il comico italiano più noto nel mondo, dopo il compianto Dario Fo, e nonostante gli sforzi sovrumani di Beppe Grillo di rimontare il distacco: Roberto Benigni. Che appartiene, secondo i suoi ormai ex amici del Fatto Quotidiano, alla schiera dei traditori della Costituzione più bella del mondo, passato per opportunismo dal no al sì alla riforma, sotto la vecchia bandiera longanesiana dell’italiano che “tiene famiglia”.

L’ultimo, ma proprio l’ultimo anello della catena dei sospetti al Fatto Quotidiano è stato il ricordo del voto di soppiatto, o quasi, dato da Mattarella nella scorsa primavera al referendum contro le trivelle, anch’esso giocato politicamente contro Renzi, che aveva raccomandato l’astensione per vincere più facilmente.

Mattarella, in verità, non si astenne, nel senso che andò a votare, ma lo fece all’ultimo momento, quasi in chiusura dei seggi, per evitare che una sua foto all’apertura potesse funzionare per tutto il giorno nei telegiornali come uno spot anti-astensionistico.

Sopraffatti da tutte queste circostanze, al Fatto Quotidiano hanno deciso di “sparare” contro il presidente della Repubblica un vistoso titolo di attacco per dargli dell’”arbitro-giocatore”. E gli è andata pure bene. Poteva accadergli di peggio.

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