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Luciano Canfora su Benedetto Croce dice il falso pur dicendo la verità

Lingotto, 5 stelle, molestie

A volte può succedere di dire il falso pur dicendo la verità. Non è un gioco di parole, né un sofisma da intellettuali, ma un’esperienza comune a chi va a ripercorrere dei tratti di vita o anche, più in generale, di storia. Qualcosa del genere mi sembra sia successo ieri a Luciano Canfora, che ha fatto uscire su Repubblica lo stralcio di un suo più ampio saggio sull’atteggiamento di Benedetto Croce verso gli alleati dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Ovviamente è vero che il filosofo napoletano rimase deluso dal Trattato di pace che fu imposto all’Italia, giudicandolo troppo punitivo e considerandolo quasi come il “tradimento” di un patto che si era stretto fra le forze del CLN e gli alleati nel corso del processo che aveva portato alla liberazione. E fa poi anche piacere che uno storico di vaglia di formazione marxista parli non solo con rispetto di Croce, ma gli tributi anche importanti riconoscimenti intellettuali (un tempo questo non sarebbe stato pacifico).

Ad esempio quello di essere stato consapevole che quella che si era appena conclusa era stata una “guerra civile europea”, fattasi “mondiale”, e di avere anzi persino contribuito ad introdurre questa idea, che avrà poi fortuna, nel dibattito storiografico. Eppure, nonostante ciò, c’è qualcosa che stona nell’intervento di Canfora. Che anzi finisce per distorcere, per omissione, la verità storica. Croce era infatti consapevole, almeno dal 1942, che la “guerra civile”, che diventava ai suoi occhi, come opportunamente dice Canfora, una “guerra di religione”, si era combattuta fra i fascismi e gli opposti totalitarismi. E non, come sempre Canfora dice, fra i fascismi e tutti gli altri, comunisti compresi. Croce, detto altrimenti, era ben consapevole che l’alleanza militare coi sovietici era stata strumentale.

Così come era consapevole che, in Italia, tutta politico era l’accordo che si era creato fra liberali e democratici da una parte e  comunisti dall’altra, nell’arco delle forze che stavano dando vita alla Repubblica e alla Costituzione. Che i comunisti appartenessero all’altra parte del fronte, Croce lo aveva scritto in quella sorta di rivisitazione della sua interpretazione storica del marxismo che è il saggio del 1942 intitolato: Sul comunismo come realtà politica. Un saggio così aspramente anticomunista che Togliatti lo avrebbe stroncato un anno dopo sul primo numero di Rinascita, causando una sorta di incidente diplomatico con Croce (erano tutti e due ministri) e dovendo pertanto scusarsi e rettificare nel numero successivo.

Se si considera che, sempre del ’42, Croce rivede il suo giudizio sul cristianesimo nel celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani; e che, sempre in quel periodo, andando in controtendenza rispetto alla cultura politica che si sta formando, egli critica duramente le tendenze azioniste e liberalsocialiste (anche di suoi molti allievi); se si considera ciò, è evidente che il contesto in cui opera Croce è altro da quello che sta prendendo il sopravvento in Italia. Croce è un isolato perché non si limita a essere antifascista, ma vuole essere anche anticomunista. E capisce che la nuova battaglia per la libertà si gioca eliminando, prima o poi, anche l’altro totalitarismo. Da qui la sua attualità e la sua vicinanza più ai liberali europei e di oltreoceano che agli intellettuali italiani. Il contesto in cui opera è tutt’altro da quello che Canfora lascia intuire.

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