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I mugugni di Bruxelles, i numerini di Renzi e le schizofrenie delle opposizioni

L’Unione europea ha inviato una lettera di chiarimenti all’Italia, alla Francia, alla Spagna, al Portogallo, al Belgio e all’Olanda, ma allo stato attuale solo in Italia ha provocato l’annuale psicodramma politico-mediatico. Non vi hanno dato grande attenzione i quotidiani che muovono i mercati come il Financial Times e il Wall Street Journal, i quali si dedicano piuttosto ad esaminare la risposta di Mario Draghi alla ondata di critiche contro gli effetti collaterali e indesiderati del quantitative easing. Questo sì un tema cruciale perché finora la politica monetaria iper-espansiva ha trascinato la ripresa nell’area euro e ha aiutato in modo consistente i Paesi più deboli a cominciare dall’Italia. Se cambia sono guai, per gli italiani e per tutti gli altri.

A Parigi, a Madrid e nelle altre capitali, nessuno è contento dei rilievi di Bruxelles, ma i tecnici si sono messi al lavoro per rispondere punto per punto, E’ la solita battaglia delle cifre che si ripete come un vecchio copione della commedia dell’arte. La Francia è sotto procedura di infrazione dal 2009 e i più probabili vincitori prossime elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy e Alain Juppé, hanno già detto che l’anno prossimo non rispetteranno il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e prodotto lordo. Altro che le scappatelle renziane.

Ancora una volta, l’Italia mostra una sudditanza rispetto alla commissione Ue dovuta a un misto di provincialismo, fragilità politica e debolezza economica. Tre mali che non si curano alzando la voce o battendo i pugni, ma nemmeno usando le critiche in modo demagogico e strumentale. Renato Brunetta non ricorda più quando era la sinistra a usare i suoi stessi argomenti da tardo-keynesiano e neonazionalista? Quanto ai pentastellati fautori di un nuovo assistenzialismo statalista (tra proprietà pubblica delle industrie dei servizi e cosiddetto salario di cittadinanza) adesso attaccano Matteo Renzi perché non taglia la spesa pubblica?

Ovunque le opposizioni fanno propaganda usando anche gli argomenti più triviali, ma ci sono Paesi in cui prevale l’interesse nazionale. Viene in mente Luìs Zapatero il quale nelle sue memorie ricorda il fatale 2011 quando la Bce inviò anche a lui una lettera contenente ricette lacrime e sangue. Ebbene, la mise nel cassetto, chiese al governatore della banca centrale che l’aveva controfirmata di tenere la bocca chiusa e non si sognò minimamente di discuterne alle Cortes. L’opposizione, quando la notizia venne fuori in autunno, fece finta di cadere dalle nuvole anche perché Mariano Rajoy stava per vincere le elezioni e immediatamente dopo si sarebbe trovato sotto le forche caudine della Bce e della Ue.

Ricordiamo tutti cosa avvenne in quello stesso agosto in Italia. La lettera venne subito fatta filtrare sui giornali, scoppiò un putiferio sui mercati e cominciò l’inesorabile caduta di Silvio Berlusconi. La Spagna non è un modello di democrazia governante come dimostrano anche le ultime vicende: elezione dopo elezione non si è riusciti a trovare una maggioranza solida. Il governo che sta nascendo ha l’appoggio esterno di un partito socialista lacerato e decapitato. Insomma, la malattia senile della democrazia si sta manifestando in pieno e ne vedremo ancora delle belle. Tuttavia la politica spagnola mantiene un senso delle istituzioni e dell’interesse nazionale che in Italia non esiste.

Nel merito dei rilievi, la Ue mette insieme ragioni e torti. Ha ragione quando rimprovera alla legge di bilancio di contare troppo su misure una tantum. Su quasi 27 miliardi da reperire, ben 12 sono in disavanzo, cioè saranno assicurati stampando altri titoli di Stato, quindi peggiorando il debito. Quasi dieci miliardi dipendono da invenzioni estemporanee: tre dalla rottamazione delle cartelle esattoriali, 2,5 dal recupero della evasione Iva, due dalla nuova voluntary disclosure estesa al contante e 1,8 miliardi da rinnovo delle concessioni di telefonia Gsm, con passaggio al 5G. Ancor più allarmante è che 15 miliardi, quindi più della metà del ricavato, servono non a sostenere la crescita e gli investimenti, ma a scongiurare l’aumento dell’Iva.

Ma la commissione ha torto nel sollevare l’eccezione sul terremoto e sugli immigrati (anche se è prevedibile che su questo farà marcia indietro). A Bruxelles regna un pregiudizio, non senza fondamento: che le spese eccezionali coprano in realtà spesa pubblica ordinaria. Perché i 19 miliardi di euro di flessibilità concessa più i risparmi per gli interessi (36 miliardi dal 2013) non sono serviti a ridurre il deficit e il debito? Le clausole di salvaguardia vengono rinviate di un anno, ma è realistico pensare che nel 2018, anno elettorale, si taglino 20 miliardi per far quadrare i conti?

Il governo su questo glissa e cambia argomento, eppure la sua risposta va presa sul serio: le risorse disponibili sono state usate per spingere la congiuntura, perché lasciata al puro gioco del mercato, tra banche che non fanno troppi prestiti, imprese che non investono, consumatori che non spendono, staremmo ancora in piena recessione. Bisognerà verificare quanto l’esile ripresa italiana dipenda dalla domanda estera (ancora poco a quanto sembra) e quanto dalla domanda estera (finora prevalente). Ma cosa sarebbe successo se non ci fosse stato nemmeno quel deficit spending? Gli economisti si eserciteranno a lungo su questo dilemma, tuttavia gli eurocrati di Bruxelles dovranno raffreddare i loro eroici furori. Alla fine della fiera, non si sarà richiamo.

La lettera non è un ultimatum. Il governo non sarà bocciato. La Ue farà buon viso a cattivo gioco. Un 2017 segnato da elezioni ad alto rischio in Francia e in Germania, nell’antico motore d’Europa, metterà l’Italia in un cono d’ombra. Sarebbe davvero sciocco non approfittarne per fare, stavolta per davvero, “i compiti a casa”.

Stefano Cingolani

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