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Tutti i prevenuti No di Bersani e D’Alema contro Renzi

Nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale il no più controproducente, e quindi più utile a Matteo Renzi, ha smesso ormai di essere quello di Massimo D’Alema: troppo sfacciato e condizionato dal livore politico di un “rottamato” per essere preso sul serio e creare problemi di coscienza ai tanti incerti che ancora registrano i sondaggi.

Ancora più controproducente è invece diventato, per restare nei confini del Pd, il no di Pier Luigi Bersani. Che per fortuna di Renzi viene invitato più di D’Alema nei vari salotti televisivi, pubblici e privati. E disorienta con le sue battute, le sue allusioni, le sue reticenze, le ricostruzioni di comodo, come vedremo, del suo fallito tentativo, tre anni e mezzo fa, di fare il governo. Disorienta – ripeto – anche quelli che lo hanno a lungo apprezzato per il suo aspetto pacioso, e pure per l’aiuto che gli hanno dato le simpatiche, imperdibili imitazioni ironiche di Maurizio Crozza.

Il no di Bersani ha innanzitutto l’inconveniente di essere sempre avvolto in un involucro non trasparente. È un no sempre più minacciato che definito, cioè esplicitamente e coraggiosamente annunciato. Un pugnale troppo a lungo sollevato contro la vittima può diventare persino più sgradevole della stessa pugnalata. Diventa un supplizio più atroce di un delitto, per quanto metaforico sia il delitto, appunto, di un no destinato, volente o nolente, ad atterrare il segretario del proprio partito, nonché presidente del Consiglio.

Persino quel gattone cordiale che è il mio amico Paolo Mieli, ospite con lui di Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La 7, si è appena spazientito dei tentativi di Bersani di lasciare sospeso il suo no a quello ch’egli stesso ha definito “il miracolo” propostosi dal compagno di minoranza Gianni Cuperlo. Che ha accettato di partecipare alla commissione incaricata di definire una proposta di modifica della legge elettorale: il famoso Italicum, considerato dai critici una indigeribile aggravante della riforma costituzionale.

Incalzato sempre dall’ex direttore del Corriere della Sera, Bersani ha detto che la legge elettorale della Camera, quella del ballottaggio, dei capilista bloccati e del premio di maggioranza alla lista più votata, non basta modificarla. Va “rottamata”, ha sillabato il deputato di Bettola facendo il verso al rottamatore Renzi. Ma soprattutto diffidando implicitamente Cuperlo, senza avere quindi il coraggio di dirlo esplicitamente, dal concordare solo modifiche.

Se la gara è fra chi rottama di più, i seggi referendari di dicembre si allestiscano direttamente nei recinti degli sfasciacarrozze.

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Anche per la bomba sfacciatamente demagogica della legge sul dimezzamento delle indennità parlamentari, buttata dai grillini nel fuoco della campagna referendaria per sorpassare Renzi sul terreno dei tagli ai costi della politica, Bersani ha avuto da ridire sulla linea del suo partito. Che ha voluto e ottenuto l’allungamento del percorso del provvedimento rimandandolo dall’aula di Montecitorio in commissione, per l’esame preliminare e ordinario degli emendamenti, senza indicare – ha lamentato Bersani – una sua proposta in materia. Eppure non più tardi di due giorni prima il segretario del Pd in persona aveva opposto al dimezzamento chiesto dai grillini la riduzione delle indennità nella misura delle percentuali di assenza dei parlamentari, citando come esempio il caso del vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio. Il cui tasso di partecipazione ai lavori è di poco superiore al 35 per cento, e di tanto dovrebbe diventare la paga onorevole che adesso invece egli percepisce per intera.

Ma Bersani non si è limitato a criticare Renzi anche su questo versante, accusandolo di non avvertire gli umori della gente, di non appoggiare l’orecchio a terra, come facevano gli indiani per misurare le distanze dagli inseguitori. Egli si è vantato di avere inserito proprio la riduzione dei costi istituzionali nel programma di un suo governo proposto nel 2013 ai grillini, dimenticando di aggiungere, come gli ha invece ricordato Meli da “storico”, che quelli non se lo filarono per niente. Ciò che invece Bersani preferisce ricordare, senza tuttavia dolersene esplicitamente, è che della indisponibilità dei grillini ad assecondare il suo tentativo di un governo “minoritario” ma al tempo stesso “di combattimento”, pensate un po’, fu l’allora presidente della Repubblica, e compagno di partito, Giorgio Napolitano. Che gli tolse prudentemente l’incarico per passarlo, dopo la propria conferma al Quirinale, all’allora vice segretario del Pd Enrico Letta per un governo dalle intese larghe e certe, concordate con Silvio Berlusconi ancora senatore della Repubblica.

Cocciuto come un mulo, nonostante il carattere sempre più anti-sistema del movimento 5 Stelle Bersani è rimasto convinto che il suo partito debba essere – ha detto testualmente allo sbigottito Meli – “alternativo alla destra e competitivo con i grillini”. Competitivi come i socialisti di Bettino Craxi si consideravano nei riguardi degli alleati di governo democristiani, vorrei ricordare a Bersani e ai suoi compagni di partito che di un’alleanza con Craxi, considerato da Enrico Berlinguer “un pericolo per la democrazia”, non volevano sentir parlare. Meglio il Grillo di oggi, evidentemente per Bersani, che il Craxi di trent’anni fa. Questa è la sinistra che l’ex segretario del Pd vorrebbe rappresentare e forse anche tornare a guidare.

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Eppure da questa curiosa sinistra prende paradossalmente lezione la destra, che la imita inseguendo i grillini sul terreno della più sfacciata demagogia, forse sino a condividere la “canaglia” data nella pur poco frequentata Piazza di Montecitorio dal solito pentastellato Alessandro Di Battista alla maggioranza parlamentare.

Forzisti, leghisti e fratelli d’Italia hanno votato con i grillini contro il rinvio in commissione del loro spot sul dimezzamento dell’indennità parlamentare. D’altronde, in odio a Renzi dirigenti di Forza Italia, della Lega e della destra meloniana nella scorsa primavera hanno incoraggiato i loro elettori ad aiutare i candidati grillini a vincere nei ballottaggi sugli aspiranti sindaci del Pd.

Anche Mao si sarebbe allarmato di fronte alla confusione della politica italiana di oggi: lui, che della “grande confusione sotto il cielo” si compiaceva per la “fortuna” che poteva ricavarne la sua rivoluzione.

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