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Tutti i dettagli della baruffa di Matteo Renzi con Gruber, Formigli e Floris

Il boicottaggio di un giornale o di una televisione è sempre sbagliato. E’ un errore che alla lunga produce danni più a chi lo pratica che a chi lo subisce. Ciò vale anche per la “guerra” attribuita a Matteo Renzi nei riguardi de la 7: la televisione di Urbano Cairo, ora editore anche del Corriere della Sera.
Pur avendo da poco ottenuto proprio davanti alle telecamere de la 7 una eccellente e utile performance politica nel confronto, moderato da Enrico Mentana, col capo spirituale del fronte del no referendario alla sua riforma costituzionale, il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, il segretario del Pd e presidente del Consiglio avrebbe dato disposizioni ai suoi amici più esposti di rifiutare eventuali inviti a frequentare i salotti televisivi di Lilli Gruber, di Corrado Formigli e di Giovanni Floris, tutti appunto de la 7. Sarebbe stata risparmiata solo La Gabbia di Gianluigi Paragone, dove peraltro è anche scomodo andare perché ti lasciano faticosamente in piedi.

Ferma restando la premessa, che cioè il boicottaggio è un errore, questa volta Renzi si è guadagnato il riconoscimento di un’attenuante, o quasi, addirittura dal direttore del Tg de La 7, che è anche il capo dell’informazione televisiva della rete. Pur con un titolo un po’ forzato, che gli fa dire “Renzi ce l’ha con la 7 e un po’ ha ragione: troppi fan del no”, un’intervista di Enrico Mentana al Fatto Quotidiano riconosce l’esistenza di un problema. Alla cui soluzione forse Enrico non si sente di provvedere, visto che ha accettato di parlarne al di fuori dell’azienda. Evidentemente i conduttori che hanno fatto “arrabbiare” Renzi non vogliono cambiare registro.

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Mentana l’ha messa un po’ sul piano enologico, paragonando il sì referendario al vino bianco e il no al vino rosso. “Il vino bianco –ha ricordato a Renzi- non può fare a meno della bottiglia e del bicchiere, ma anche loro”, cioè la bottiglia e il bicchiere, ”non possono riempirsi solo di vino rosso”.
Il problema tuttavia non è solo dell’oste, che deve portare a tavola la bottiglia, il bicchiere e il vino. Il problema è anche di chi, seduto a tavola, non deve servirsi o servire il vino, bianco o rosso che sia, versandolo fuori del bicchiere o addirittura addosso all’altro. E se lo fa, qualcuno deve impedirglielo, visto che a tavola c’è anche un terzo incaricato proprio di evitare che questo accada: nel nostro caso, il conduttore.

So che è antipatico beccarsi tra colleghi, specie se la polemica riguarda questa volta una professionista con i fiocchi come Lilli Gruber, ma avendo avuto l’occasione di assistere davanti al televisore al confronto sulla riforma costituzionale fra la ministra Maria Elena Boschi, ospite appunto di Lilli nello studio di Otto e mezzo, e il segretario della Lega Matteo Salvini, collegato non ricordo più da dove, mi ha sorpreso la tolleranza della conduttrice di fronte allo spettacolo dello sfidante. Che ha cominciato col pretesto dell’articolo della Costituzione che incoraggia e tutela il risparmio, non compreso peraltro fra quelli modificati con la riforma, per accusare la Boschi e suo padre di avere provocato con la gestione della Banca Etruria il dissesto dei clienti e un suicidio. Lì occorreva, secondo me, che l’arbitro fischiasse il fallo e fermasse il gioco precedendo “la signorina Boschi”, come Salvini chiamava la ministra delle riforme. Che ha cercato giustamente di contenere l’assalto ricordando che il referendum del 4 dicembre è sulla riforma costituzionale, non su suo padre, che per la vicenda della banca aretina, di cui è stato vice presidente, è indagato e sta pagando le multe comminate dalla Banca d’Italia.

Commesso il primo fallo senza richiamo, il segretario leghista ha continuato a commetterne provocando per ritorsione altri da parte della Boschi, che gli ha rinfacciato il dissesto di una banca fondata dalla Lega ai tempi di Umberto Bossi, “l’assegno di 20 mila euro al mese” staccatogli dal Parlamento Europeo e la sua scarsa frequentazione dell’aula e delle commissioni di Strasburgo: tutte cose anch’esse estranee alla riforma costituzionale e cui Salvini reagiva con smorfie di derisione.

Ho trovato lo spettacolo deprimente, aggravato da una cronaca del fuori onda non smentita e che debbo perciò considerare vera. Alle lamentele finalmente fatte dalla conduttrice alla fine della trasmissione il segretario della Lega, che aveva cominciato il gioco scorretto, si è giustificato dicendo di non aver potuto resistere alla tentazione del fallo perché “non capita tutti i giorni avere la ministra Boschi” a portata di tiro.
A uno così a casa mia non gli farei mettere più piede, neppure se mi riempisse di soldi, che nel caso di una trasmissione televisiva sarebbero gli ascolti.

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L’idea che Salvini, al pari della minoranza bersaniana del Pd che ha annunciato il suo no referendario prima ancora che il segretario del partito esponesse alla direzione la linea sulla riforma della contestatissima legge elettorale della Camera, si trova espressa in un orribile messaggio elettronico che il segretario della Lega ha diffuso unendosi alle proteste del solito capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta contro “l’uomo solo al telecomando”, come Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ha sprezzantemente definito il Matteo Renzi appena intervistato all’Arena di Massimo Giletti su Raiuno.

Eccolo il messaggio di Salvini: #renzimifaschifo. Non ditemi, per favore, che questa è lotta politica. Se n’è accorto anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che dopo essersi lasciato indicare, per le sue sollecitazioni a cambiare la legge elettorale della Camera, come un concorrente alla successione a Renzi ha liquidato tutto, in una intervista al Corriere della Sera, come “fantasie di retroscenisti”. E soprattutto ha difeso la riforma costituzionale dalle critiche anche dei suoi amici di partito, preoccupati del troppo potere che il presidente del Consiglio acquisterebbe, dicendo senza mezzi termini: “Questo tempo richiede leader più forti, non più deboli”.

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