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I microcosmi silenti di Hopper

Arredare il silenzio, direbbe Paolo Conte nella sua splendida “Recitando” ; è questa la sensazione del visitatore che si trova a varcare l’ingresso della mostra dedicata ad Edward Hopper al Complesso del Vittoriano.
Nel percorso ottimamente allestito si avverte una sensazione cinematografica , quasi sospesa come una continua attesa. Una scena che deve accadere, che ferma il tempo in quell’attimo silenzioso tra il motore e l’azione.
“Recitando si scende
Giù sul fondo,
Le memorie ondulate
E profanate
Da una mano fantasma
Che propone alleanze
Concedendo distanze
Di egoismo e frenesia”…

Sembra di sentire la voce roca di Conte che accompagna la visita; un sottofondo perfetto per rimpire spazi vuoti nel tempo fatto di attimi e situazioni enigmistiche come spesso accade nel rebus della vita
Non a caso all’esposizione delle opere si aggiunge una sezione del tutto inedita, dedicata all’influenza di Hopper sul grande cinema come nei film che hanno per protagonista Philip Marlowe, i lavori di Hitchcock – Psycho e Finestra sul cortile -, quelli di Michelangelo Antonioni, fino ai diversi riferimenti hopperiani ne Il Grido, Deserto rosso e L’eclisse. In Profondo rosso, Dario Argento ricostruisce come “Nighthawks” la sequenza del bar; in Velluto blu e Mullholland Drive, il grande David Lynch s’ispira a molte opere di Hopper, così come Wim Wenders in Paris, Texas e Todd Haynes in Lontano dal Paradiso e i fratelli Coen in L’uomo che non c’era.
Si avverte, dunque, la sensazione del mistero dell’ignoto come per la stessa vita c’è un insieme di inquietudini e di solitudini; c’è un atmosfera di luci e di ombre, di dubbi e certezze. Di fronte alle opere di Hopper si aspetta e allora il dipinto prende forma; si anima e risente del momento emozionale di coloro che lo guardano spesso immedesimandosi nei “fotogrammi” ormai noti quali icone prestate a varie espressioni artistiche: dal cinema appunto ai libri.
Edward Hopper, torna dunque a Roma; uno degli artisti più conosciuti e amati dal grande pubblico internazionale. Circa 60 capolavori realizzati da Hopper tra il 1902 e il 1960, prestati eccezionalmente dal Whitney Museum di New York, tra cui le opere iconiche Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), New YorkInterior (1921), South Carolina Morning (1955) e Second Story Sunlight (1960).
Prestito eccezionale è il complesso e seducente olio su tela Soir Bleu opera della lunghezza di circa due metri, realizzato da Hopper nel 1914 a Parigi.
Quest’ultima opera, ad esempio, si presta a tante suggestioni: opera di solitudini, ma anche di rimandi Felliniani e che trova nella poesia più intimista e anche nella stessa musica contiana il suo ambiente naturale.
Hopper ci ricorda con un immagine efficace il senso della sua opera: ” Forse non sono troppo umano , ma il mio scopo è stato semplicemente quello di dipingere la luce del sole sulla parete di una casa”
E invece i suoi dipinti ci parlano di un’umanità da ricercare proprio nelle case poco illuminate; una sorta di “grande freddo” che si può attualizzare nel passaggio dal reale al virtuale; Hopper se vogliamo racconta la società moderna, quella della non comunicazione, del non dialogo, quella dei rapporti forzati o governati dall’ipocrisia. Una sorta di solitudine amplificata che Hopper oggi avrebbe descritto dipingendo , forse, volti chinati sul proprio smartphone alla ricerca di una vita parallela, perdendo il contatto con quella reale.
Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio della Regione Lazio, in collaborazione con Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, la grande retrospettiva dedicata a Edward Hopper è organizzata e prodotta da Arthemisia Group con il Whitney Museum of American Art di New York, ed è curata da Barbara Haskell – curatrice di dipinti e sculture del Whitney Museum of American Art – in collaborazione con Luca Beatrice.
La mostra è suddivisa in sei sezioni: ritratti e paesaggi, disegni preparatori, incisioni e olii, acquerelli e immancabili immagini di donne, sono tutti i protagonisti della retrospettiva romana.
Narrando l’incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana che caratterizzò la sua opera, l’esposizione vuole essere una vera e propria “cifra hopperiana”, ereditata in molteplici campi dell’espressione visiva che hanno reso i suoi quadri poster, e, come si è detto, copertine di libri e citazione cinematografiche.
Nelle sue tele c’è la frenesia di una ricerca del nuovo, quello dei bar di notte, delle strade desolate senza un’anima viva, delle pompe di benzina e dei paesaggi di campagna che egli stesso raccontò mettendo in discussione il sogno americano e indicando la strada di una rinascita oltre a quella della conquista di una esistenza più consapevole.
Molto interessante l’affermazione di Luca Beatrice tratta dall’ottimo catalogo Skira :” È raro che il nome di un artista visivo si trasformi in un aggettivo che renda perfettamente l’idea di uno stile e di un linguaggio: quando accade, significa che ciò che noi vediamo si può ricondurre subito a un lavoro dai connotati e dai tratti molto precisi, addirittura inconfondibili. Si parla per esempio di cinema felliniano – e qui ritorna la “citazione” – quando il retaggio surrealista, un’immaginazione molto forte e fuori dagli schemi, si impone sul flusso della storia. Oppure di arte duchampiana se l’elemento di natura concettuale è il punto nodale della questione, ben al di là di ragionamenti possibili intorno al materiale e all’oggetto, dove prevale la ben nota teoria del contesto per la quale un’opera d’arte esiste se il luogo deputato la certifica come tale” .
E’ lo stesso Hopper a darci il senso di questa mostra attraverso le sue parole ancora una volta come dipinti dell’attimo: ” è all’inizio che bisogna andare lenti quando si comincia, per tracciare una composizione impeccabile in modo da non dover aggiungere e sottrarre dopo” .
E’ cosi, che si racconta, dipingendo, la vita.

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