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Stato o governabilità, la lezione spagnola

Mariano Rajoy - Imagoeconomica

Qual è la lezione da trarre dal cuore delle recenti vicende spagnole cioè dalla mancanza da oltre otto mesi di un governo sorretto da una maggioranza parlamentare dopo ben due elezioni anticipate? Come mai l’economia di questo Stato dà risultati assai migliori di quella italiana che pure è guidata da un governo in carica ormai da oltre due anni e mezzo?

Certamente hanno funzionato a Madrid nel ridare un po’ di fiato all’economia le riforme del mercato del lavoro avviate dal governo Zapatero e perfezionate da quello Rajoy, nonché l’opera di risanamento del bilancio dello Stato impostata da quest’ultimo (c’è chi riesce a fare persino una seria spending review): anche se non va scordato il terribile tasso di disoccupazione che caratterizza tuttora la realtà economica iberica.

Però il principale elemento su cui riflettere è quello della tenuta dello Stato spagnolo: è questo il vero fattore che consente anche a un governo in carica per funzioni tecniche di svolgere i suoi compiti amministrativi senza creare particolari guasti.

Se si esamina la struttura delle istituzioni iberiche si constata la presenza di un capo dello Stato che rappresenta bene il suo popolo e che non ha la tendenza a essere un commissario di Bruxelles come sono stati Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, si fa i conti con la realtà di un solido sistema federale che tiene legati cittadini e istituzioni anche in presenza di tensioni secessionistiche ben più radicali di quelle talvolta emerse in Italia, si verifica la ricerca di una costante legittimità popolare del potere dell’esecutivo perseguita dal re senza avallare quelle pratiche trasformistiche così tipiche degli ultimi anni della politica italiana. E’ la forza dello Stato spagnolo quella che colpisce un osservatore specialmente italiano e che spiega per esempio anche un sistema del credito ben più strutturato di quello italiano sia a livello nazionale e globale con Santander e Bilbao, sia con un sistema di casse di risparmio spesso troppo corrotte ma comunque utili a tenere insieme l’economia locale. Un efficiente sistema di credito si struttura dove ci sono le “forme” dello Stato adeguate a perseguire interessi nazionali e non a favorire quei comportamenti criccaioli di cui ogni giorno parlano le cronache che si occupano di tanta parte delle banche italiane. E non ci dilunghiamo neanche sull’esaurirsi a Madrid del protagonismo della magistratura politicizzata.

La politica spagnola è in crisi come tanta parte di quella europea e lo è perché i due partiti architrave (Ppe e Psoe) si sono schiacciati sulla politica l’uno di Angela Merkel e l’altro della Spd, la loro crisi è la crisi dei partiti a egemonia tedesca che riflettono la crisi del loro modello di ispirazione. E’ un fenomeno diffuso che va dall’Olanda alla Grecia fino all’Austria. Un modello che José Maria Aznar aveva cercato di superare con un rapporto privilegiato con Washington, tentativo che José Zapatero e le debolezze dell’amministrazione Obama hanno frustrato.

La crisi però della politica spagnola ha tutto il tempo di maturare e di definire nuovi scenari di cui saranno protagonisti anche Ciudadanos e Podemos (movimenti ben diversi dalla protesta nullista emersa con i grillini grazie a quel degrado della democrazia che l’azione verticistica mal calibrata di Napolitano ha finito per provocare), perché poggia su uno Stato ben strutturato in grado di garantire la piena legittimità delle istituzioni e quindi la base necessaria per una sovranità nazionale sia pure condizionata dai sistemi sovranazionali in cui questa è inserita.

La fondamentale lezione spagnola è dunque questa: il primo problema di uno Stato membro dell’Unione è garantirsi un’adeguata sovranità nazionale.

I teorizzatori della fine delle sovranità popolari/nazionali (sia pure sovracondizionate), gli apologeti della supremazia delle tecnocrazie e dei mercati al di là del deprimente mondo senza più soggettività politico-social-culturali che disegnano, avrebbero qualche ragione se riuscissero a far almeno prevalere scelte come quelle di una maggiore integrazione federale dell’Europa o quella di un trattato interatlantico (Ttip) che surrogassero le debolezze della politica con una maggiore forza dei mercati. Ma nessuno di questi orizzonti è dietro l’angolo, si vivrà invece inevitabilmente in uno scenario in cui le pur parziali sovranità nazionali europee dovranno ridiscutere la forma dei loro rapporti.

In questo quadro l’essenziale lezione spagnola è quella di disporre di uno Stato attrezzato a questa sfida. Il dramma italiano, invece, è il pasticcio delle riforme renziane che non risolvono alcuno dei nodi fondamentali dello Stato italiano (la forma di rappresentanza dello Stato nei suoi rapporti con l’esecutivo, le funzioni di bilanciamento dell’assemblea legislativa rispetto all’esecutivo, il sistema regionale o autonomistico rispetto allo Stato centralistico, e non parliamo di magistratura) ma invece con confusi provvedimenti uniti a un altro pasticcio di riforma del sistema elettorale cercano di garantire non uno Stato più forte bensì solo una governabilità più efficace. Soluzione che però priva le istituzioni della sovranità popolare di legittimità adeguata, di basi sociali sufficientemente ampie, e diventa così esclusivamente il modo di essere dipendenti invece che protagonisti delle istituzioni sovranazionali di cui lo Stato italiano fa parte: da qui anche le ridicole esibizioni di Matteo Renzi di questi ultimi mesi (“ho una solida alleanza con Merkel e Hollande”, “ho un asse preferenziale con Hollande”, “Hollande e la Merkel sono miei avversari”) che sfociano poi in una pietosa richiesta di mance (la mancia è il vero simbolo della politica renziana) “per vincere referendum ed elezioni” contro i populisti o contro il vecchio o contro Berlusconi o contro gli antiberlusconiani.

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