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Tutte le grane di Facebook dall’Italia alla Germania

Gli Over the top non sono esenti da responsabilità nei confronti dei loro utenti e della comunità. Anche se sulle loro piattaforme vengono inseriti contenuti e video generati dagli utenti, che meritano spazio in nome della libertà di opinione e di espressione, non può venir meno una forma di vigilanza se la libertà di un individuo finisce col ledere la libertà di un altro.

E’ un concetto che viene spesso sostenuto dalle autorità nazionali ed europee ma che ha trovato una consacrazione nella sentenza del Tribunale di Napoli Nord sulla vicenda di Tiziana Cantone, suicidatasi dopo la diffusione sul web, a sua insaputa, di video hard che la ritraevano: i link e le informazioni dovevano essere rimossi da Facebook una volta che ne era emersa l’illiceità, a prescindere da un preciso ordine dell’autorità amministrativa o giudiziaria.

LA VICENDA DI TIZIANA

La vicenda è nota: Tiziana Cantone, 31 enne di Mugnano (Napoli), si è suicidata il 13 settembre dopo la diffusione sul web di video hard che la ritraevano.

Per fermare la diffusione virale dei contenuti, Tiziana si era rivolta al giudice civile Monica Marrazzo, che, il 10 agosto, ha emesso un’ordinanza disponendo l’obbligo per alcuni social, tra i quali Facebook, di rimuovere video e commenti segnalati dalla giovane. I legali del social network avevano presentato reclamo contro questa ordinanza. Al momento del deposito dell’ordinanza del giudice di Napoli tre profili attraverso i quali si accedeva ai video di Tiziana erano stati rimossi da Facebook, dopo le pressanti richieste della ragazza, ma un quarto profilo era ancora attivo e gli avvocati di Facebook spiegavano che “non presentava contenuti a sfondo sessuale”, né “profili di illiceità”.

LA SENTENZA DI NAPOLI

Il Tribunale Civile di Napoli Nord (collegio presieduto da Marcello Sinisi) ha parzialmente rigettato il reclamo di Facebook Ireland e invece accolto le ragioni della madre di Tiziana, Teresa Giglio. Per il tribunale, infatti, Facebook è da censurare per la sua condotta passata per “la sussistenza della responsabilità per le informazioni oggetto di memorizzazione durevole o di ‘hosting’, laddove – come avvenuto nel caso di specie – il provider sia effettivamente venuto a conoscenza del fatto che l’informazione è illecita e non si sia attivato per impedire l’ulteriore diffusione della stessa”.

Il Tribunale ha disposto che in futuro Facebook non potrà più caricare sulla propria piattaforma i quattro link dei filmati relativi a Tiziana. I giudici hanno invece accolto la parte del reclamo presentato dai legali del social network affermando che non sussiste “un generale obbligo di sorveglianza ovvero un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”.

“E’ una pronuncia molto equilibrata”, ha commentato Andrea Orefice, legale della madre di Tiziana, “perché introduce il principio, rigettando quanto asseriva Facebook, secondo cui un hosting provider deve rimuovere le informazioni illecite, quando arriva la segnalazione di un utente, come nel caso di Tiziana. E non deve attendere che sia il Garante della Privacy oppure il giudice ad ordinargliene la rimozione”. “Facebook”, ha aggiunto l’avvocato Orefice, “ha ora l’obbligo morale di fornire tutti gli elementi utili a individuare le generalità di quelle persone che, nascoste dietro falsi profili, hanno aperto le pagine su cui sono state caricati quei contenuti diffamatori, link, video e commenti offensivi”.

L’ordinanza, sottolinea l’agenzia Ansa, è destinata a fare giurisprudenza nel conflitto tra il diritto alla privacy e la libertà degli utenti di internet.

LE ACCUSE IN GERMANIA

La decisione del Tribunale di Napoli è arrivata nello stesso giorno in cui a Monaco, per la prima volta, la magistratura ha indagato i vertici di Facebook, tra cui il fondatore Mark Zuckerberg, per la mancata rimozione di contenuti criminali, tra cui negazioni del genocidio ebraico.

L’accusa è di incitamento all’odio e ha colpito, oltre a Zuckerberg, la sua COO Sheryl Sandberg, il capo lobbysta Europa Richard Allan e la sua controparte a Berlino Eva-Maria Kirschsieper.

La notizia è stata diffusa dal settimanale Der Spiegel che ha ottenuto documenti dalla Procura di Monaco; l’indagine è stata innescata dalla denuncia di un avvocato di Wuerzburg, Chan-jo Jun, che accusa Facebook di aver tollerato, tra l’altro, istigazioni all’omicidio e alla violenza e negazioni dell’Olocausto senza aver rimosso questi contenuti nonostante le debite segnalazioni. All’inizio dell’anno una denuncia analoga alla Procura di Amburgo era rimasta senza conseguenze per carente competenza territoriale e le indagini contro alcuni manager tedeschi erano state archiviate.

In Germania la legge contro il cosiddetto hate speech è ferrea – un giusto effetto delle atrocità naziste e delle derive estremiste non ancora estirpate. Facebook ha l’obbligo di rimuovere i contenuti illegali dalla sua piattaforma ed è già stata attaccata più volte perché, secondo le autorità tedesche, non lo fa in modo puntuale e continuativo.

NEL MIRINO DEL MINISTRO MAAS

Facebook è da tempo nel mirino delle autorità tedesche. L’anno scorso la cancelliera Angela Merkel ha dato una bella strigliata al social perché l’arrivo di un numero record di rifugiati in Germania aveva scatenato commenti xenofobi non prontamente rimossi dalla piattaforma.

Particolarmente impegnato su questo fronte è il ministro della Giustizia Heiko Maas, che ha più volte accusato il sito di Zuckerberg, insieme a Twitter e Google, di essere “troppo lenti” nella rimozione dei post offensivi; molti dei contenuti illeciti che vengono segnalati dagli utenti non vengono eliminati. Maas è anche sponsor di una nuova iniziativa in ambito Ue per creare leggi comunitarie contro l’hate speech con multe molto più severe di quelle previste attualmente per i siti che tollerano contenuti razzisti e xenofobi.

Secondo Maas, Facebook rimuove circa il 46% dei contenuti illegali segnalati; YouTube e Twitter fanno molto peggio: il primo ne rimuove il 10%, il secondo l’1%. E non si tratta solo di derive neonaziste ma anche di materiali legati alle atrocità del terroristismo. Il ministro si aspetta un’azione spontanea da parte di social network e Ott, ma non esclude, se non sarà soddisfatto, di provvedere con un inasprimento di norme e sanzioni.

I SOCIAL SI DIFENDONO

“Non commentiamo lo stato di una possibile inchiesta, ma possiamo dire che le accuse sono prive di valore e che non vi è stata alcuna violazione della legge tedesca da parte di Facebook o dei suoi dipendenti. Non c’è posto per l’odio su Facebook”. Questa la replica di un portavoce della società americana alla notizia arrivata dalla Germania.

A sua volta, Carlo D’Asaro Biondo (nella foto), responsabile dei rapporti strategici area Emea di Google, che ha parlato ieri a Roma al convegno organizzato dalla Pontificia Università Lateranense all’evento “Core Values – The transmission of Values in the Digital Age”) ha affermato: “Siamo consapevoli dell’importanza che certi contenuti vengano banditi. Ci sono delle regole chiave che seguiamo in questo senso”; questo genere di contenuti “non ci sono su Youtube e abbiamo sistemi per rimuoverli dalle ricerche. Filtriamo la pubblicità perché non sia fuorviante e ci accertiamo che venga garantito il diritto d’autore”.

LA POSIZIONE DELL’ITALIA

In Italia l’Agcom è intervenuta qualche giorno fa contro l’hate speech, in particolare legato ai fenomeni migratori. L’autorità ha messo a punto, con il lavoro coordinato dal commissario Antonio Nicita in veste di relatore della delibera, un atto di indirizzo rivolto ai professionisti della comunicazione per mantenere il più possibile una rappresentazione equilibrata dei fenomeni e non sfociare in opinioni non basate su dati di fatto e in istigazioni all’odio e alla discriminazione

L’obiettivo dell’iniziativa è di garantire nei programmi audiovisivi e radiofonici il rispetto della dignità della persona e del principio di non discriminazione: non è dunque una misura che si indirizza agli Ott e ai social network, ma che ha un riflesso sulle piattaforme online perché, ha affermato Nicita, “L’odio sui social network si scatena spesso in concomitanza con certe trasmissioni, ad esempio tramite i tweet di alcuni telespettatori. Non è un potere che noi abbiamo quello di intervenire direttamente su questi fenomeni, ma stiamo organizzando, con un osservatorio e con i rappresentanti dei social network, delle forme di autoregolamentazione per cercare di ridurre questi discorsi d’odio che avvengono sulla rete”.

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