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Donald Trump, ecco ambizioni e sfide della Trumpnomics

La Trumpnomics non è il libro dei sogni rappresentato dai media. C’è, precisa, ambiziosa e radicale, ed è destinata a diventare il modello di riferimento per tutte le economie avanzate, piaccia o no. Si muove su cifre e ricette che possono fare cambiare faccia al pianeta, sempre che venga applicata. Un mix di temi classici dei conservatori come lo stato minimo e battaglie nuove che colgono lo spirito del tempo.

Quello che è stato etichettato come protezionismo è in realtà una ricetta nuova, che consiste nel fare competere l’America con le economie emergenti. La Cina, la Corea, ma anche con l’Irlanda, paesi che negli ultimi decenni si sono arricchiti e hanno tolto agli Stati Uniti quote di mercato, posti di lavoro e benessere. Se Trump riuscirà ad applicarla, anche in parte, diventerà un modello che nessuno potrà ignorare. In primo luogo l’Europa perché nel medio periodo potrebbe minacciare le esportazioni di paesi ad alto tasso di manifattura, come la Germania e in misura minore l’Italia.

Ma vediamo nel dettaglio. Trump propone il ritorno in patria di attività manifatturiere sporche come acciaio, carbone, che le politiche pro economia dei servizi e ambientali, avevano appaltato ai Paesi emergenti come la Cina. Non è un ritorno al passato, ma la traduzione in proposte di un dato reale, cioè che senza attività manifatturiere il benessere di un Paese è destinato a calare nel tempo. Se lo realizzerà attraverso dazi, tariffe, se smonterà veramente, pezzo per pezzo, i vari accordi di libero scambio come il Nafta, e gli accordi sul clima siglati dai predecessori, se farà veramente una guerra valutaria con la Cina è difficile prevederlo, ma la strada è tracciata. Tutto dovrebbe cambiare, a partire dagli scambi commerciali che vorrebbe fossero regolati da rapporti bilaterali, con trattative condotte non da funzionari pubblici, ma da imprenditori del settore, “assunti” a tempo dal governo. Un po’ quello che sta emergendo nel Regno Unito dopo la Brexit.

E’ la fine della globalizzazione, che la storia probabilmente legherà al nome di Trump, ma che è già in atto da tempo e che il presidente eletto degli Usa vuole cavalcare.

Trump assicura che la “matematica” dietro il suo programma “funziona”. L’obiettivo è superare una crescita che non supera i due punti percentuali, e arrivare a un Pil potenziale del 4%. i suoi esperti lo hanno consigliato di fermarsi al 3,5, Trump sostiene invece che forse farà anche meglio. Pensa alle economie emergenti, che dice di volere combattere, ma che in realtà vuole imitare.

Obiettivo, ridare lavoro alla “nazione silenziosa”. La famosa America profonda che i media europei con una certa spocchia hanno identificato come il suo bacino elettorale emotivo e poco istruito. Ogni decisione del governo Trump dovrà passare attraverso un “test” e rispondere a a una domanda: Crea lavoro e benessere per i cittadini americani e le imprese americane? Se la risposta è No, la policy viene bocciata.

Riportare negli Usa 2,5 mila miliardi di attività economiche. La battaglia con il Messico non è quella del muro (che c’è già ed è rimasto in piedi durante gli otto anni di Obama), ma uno stop alle aziende che si trasferiscono a Sud degli Usa. Per illustrare il concetto Trump è ricorso spesso alla storia di Flint, cittadina industriale oggi in crisi. “Prima costruivamo le auto in Michigan e in Messico non potevi bere l’acqua. Ora è l’opposto”. Sarà la cifra della sua presidenza. Se non riuscirà gli elettori gliene chiederanno conto.

Sul fronte interno Trump dice che non si può redistribuire la ricchezza che non viene prodotta. Vuole fare una riforma delle tasse sui redditi finanziata da tagli alle spese (piano ribattezzato One cent per dollar, un centesimo per ogni dollaro di spesa pubblica da tagliare) che porti da sette a tre le aliquote fiscali: 12%, 25% e 33%, una no tax area per i redditi più bassi, deduzione per le spese sostenute per i figli. Una famiglia con 50 mila euro di reddito e due figli – ha annunciato – risparmierà il 35%. Niente sconti sul reddito per i redditi sopra i cinque milioni di euro.

In compenso la tassa sulle attività produttive dovrebbe scendere al 15%. “Vedrete l’America diventerà un magnete dell’innovazione, un esplosione di attività economiche”, ha promesso al club dell’Economia di New York durante la campagna elettorale. L’aliquota è studiata per fare concorrenza ai paesi che usano la leva delle imposte per attirare le imprese. In questo caso l’obiettivo non è solo la Cina o il Messico. Viene più che altro da pensare all’Irlanda, che accentra molti servizi destinati all’Europa. Alle attività europee dei colossi digitali. Poi investimenti, in strade, trasporti, scuole. E spese militari. Tutto dando la precedenza a prodotti e lavoro made in Usa. Un piano di spese in conto capitale da finanziare con tagli alla spesa pubblica e che secondo gli osservatori ha fatto guadagnare il consenso di Wall Street.

Anche un’altra scelta interna è da interpretare come una misura per competere sul mercato internazionale ed è la battaglia contro le regolamentazioni delle attività economiche il cui costo – ha detto in campagna elettorale – è di 2.000 miliardi all’anno. La sua proposta è una moratoria immediata sulle regolamentazioni che non riguardino la salute e la sicurezza dei cittadini. Anche in questo caso, un modo per fare assomigliare gli Stati Uniti a una economia emergente. Una sfida non al Messico o alla Cina, ma a noi europei che, alle prese con una regolamentazione delle attività economiche che già oggi ben più pesante di quella degli Stati Uniti.

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