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Silvio Berlusconi ha scelto il suo erede

Silvio Berlusconi ha finalmente scelto il suo erede: sarà Silvio Berlusconi.

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Una delle definizioni più brillanti e argute del tradimento si deve a Charles-Maurice de Talleyrand: “La trahison n’est qu’une question de temps”. “Quando non cospira, Talleyrand intrallazza”, diceva François-René de Chateaubriand. In effetti, il camaleontico principe di Benevento era passato indenne -e sempre in posizioni di prestigio- dall’Antico regime alla Rivoluzione, dal Direttorio al Consolato, da Napoleone alla Restaurazione di Luigi XVIII, e poi alla monarchia di Luglio. Se fossi in Stefano Parisi, quindi, non mi turberei più di tanto per il voltafaccia nei suoi confronti del Cavaliere. Del resto, siamo pur sempre il Paese di Machiavelli e di Guicciardini, del 25 luglio 1943 e di Badoglio, degli ex comunisti smemorati e degli ex fascisti incensurati. Parisi, stia perciò sereno. Il 5 dicembre Berlusconi potrebbe ripensarci, e restituirle quel quid che le ha temporaneamente ritirato.

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Michael Oakeshott, uno dei più originali pensatori del conservatorismo inglese del secondo Dopoguerra, paragonava la politica a un vascello che solca il mare senza sosta, senza una meta prestabilita e senza un porto in cui poter gettare l’ancora. Osservando il cafarnao che regna nel sistema dei partiti italiano, non c’è metafora più azzeccata. Infatti, il rischio è che sempre passeggeri desiderino salirvi a bordo, nemmeno pagando il biglietto ridotto per un posto nella sentina del referendum.

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Negli anni Venti del secolo scorso il governo di Primo de Rivera venne definito in Spagna “dictablanda” (in opposizione scherzosa al termine “dictadura”), in quanto non aveva le catteristiche repressive del fascismo. È in quel periodo che Ortega y Gasset concepì il suo capolavoro, “La ribellione delle masse” (1930). Noi viviamo -sosteneva allora il grande filosofo- nell’epoca del “bambino viziato”: deve pensare a tutto lo Stato, lui non deve badare a nulla, si deve limitare a essere conformista. Un po’ come quelli che oggi, poiché il lavoro è un diritto, o lo Stato mi garantisce un lavoro oppure mi garantisce un reddito “a prescidere”, come diceva Totò. Beppe Grillo e i pentastellati, per nobilitarlo agli occhi dell’opinione pubblica, lo chiamano di cittadinanza.

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Il teatro, la democrazia e le Olimpiadi sono coetanei. Nacquero circa due millenni e mezzo fa in Grecia. All’ombra dell’Acropoli, “si intrecciarono rappresentazione, rappresentanza e competizione: così nacque la politica” (Oliviero Ponte di Pino, “Comico & Politico”, Cortina, 2014). In questo processo il teatro ha avuto un ruolo centrale, perchè fare parte di un pubblico non era soltanto un aspetto della vita sociale della città: era anche un gesto politico fondamentale. Infatti, sedersi come spettatore che valuta e giudica significava partecipare come cittadino, come soggetto titolare di un diritto. Ed è stata in particolare la tragedia a offrire lo strumento principe di questo processo, a costituire la specifica forma estetica su cui poggiava la democrazia ateniese. Ebbene, il pericolo che la democrazia italiana divenga il teatro di un’altra forma estetica, quella della commedia dell’arte di Arlecchino e Pulcinella (portentosa messa in scena del nostro atavico istrionismo), a mio giudizio c’è e non va sottovalutato.

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