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Ecco le 2 notizione di Eugenio Scalfari su cosa succederà dopo il referendum del 4 dicembre

Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari
Dopo aver saltato una domenica per “qualche problema di salute ora finalmente passato”, smentendo così le voci che lo davano a disagio, anzi indispettito, per non avere Matteo Renzi accettato il suo consiglio di rendere più vincolante l’impegno di cambiare la legge elettorale con un discorso alla Camera o una nuova riunione della direzione del Pd, Eugenio Scalfari è tornato a farsi leggere. E ci ha dato due notizie: una implicita e l’altra esplicita.
La notizia esplicita, avuta – penso – di prima mano dal Quirinale, dove egli è metaforicamente di casa, come ai tempi degli amici Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi, è che il presidente del Consiglio è stato esortato dal capo dello Stato, in un incontro di qualche giorno fa, a rimanere al suo posto anche nel caso in cui dovesse vincere il No al referendum sulla riforma costituzionale. Renzi ha continuato lo stesso a minacciare o adombrare le dimissioni, forse per procurarsi – ha osservato Scalfari – più Si in questi ultimi, convulsi giorni di campagna elettorale.
Convinto, come d’altronde aveva già fatto capire con la precisazione comparsa su tutti i giornali che il voto di un referendum “non modifica la maggioranza”, Mattarella ha spiegato a Renzi nel recente colloquio che il governo ha parecchi compiti da svolgere ancora, ai quali si è aggiunta la riforma elettorale, ancor più necessaria se quella costituzionale dovesse essere bocciata e fosse quindi confermata l’esistenza di due Camere elettive e provviste delle stesse funzioni.
La notizia implicita, ricavabile dalla polemica con i No diretti a indebolire o “mandare in soffitta” Renzi, nonostante tutto quello ch’egli avrebbe ancora da fare, è che Scalfari voterà Sì. E pazienza se gliene vorranno gli amici che ha ancora nella minoranza del Pd, la destra leghista che lui non ha mai amato, il Berlusconi che non si può certamente considerare un suo estimatore e i grillini ormai in “deriva qualunquistica” incontenibile.
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Mentre Scalfari mandava le sue riflessioni e notizie al giornale da lui stesso fondato, la Repubblica, Renzi parlava ai militanti romani del Pd dentro la Nuvola di Massimiliano Fuksas, ancora fresca d’inaugurazione.
Non vi sto a ripetere gli argomenti, ormai arcinoti, del presidente del Consiglio a favore della riforma. Né gli attacchi ai signori del No, fuori ma anche dentro il suo partito, stando attento questa volta a fermare ogni cenno di contestazione del pubblico al solito Massimo D’Alema per risparmiargli il “fuori” gridatogli al raduno fiorentino della Leopolda, ed evitare poi di scusarsene per ragioni di cosiddetta opportunità politica.
Non vi sto a ripetere neppure i dettagli degli attacchi sarcastici a Matteo Salvini, l’ultra assenteista di Strasburgo; al distratto Ciriaco De Mita, che lo aveva accusato a torto in televisione di avere posto la questione di fiducia sulla legge elettorale della Camera; al presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, convinto che i suoi saggi valgano più degli articoli della Costituzione; alla stessa Corte per avere appena vanificato una parte della riforma della pubblica amministrazione faticosamente approvata dalle Camere, ma contestata dalla regione veneta grazie alle competenze che cambierebbero invece con la riforma.
La tentazione è forte, ve lo confesso, per le tante cose scritte e dette sul filo sotterraneo che li legherebbe ancora, o che potrebbero essere ripristinati dopo il 4 dicembre, ma non vi sto neppure a dilungarmi sulle battute sarcastiche riservate da Renzi a Silvio Berlusconi, smanioso di riconquistare la candidabilità preclusagli ancora dalla legge ma invitato a rassegnarsi al fatto che il G7 in programma l’anno prossimo a Catania varrà lo stesso, anche senza ch’egli vi potrà partecipare e allungare la lista di quelli dove ha potuto rappresentare quasi ininterrottamente l’Italia, mentre cambiavano i presidenti americani e francesi, e i cancellieri tedeschi.
Anche sugli attacchi ai grillini e alle loro disavventure giudiziarie per una raccolta troppo disinvolta delle firme necessarie alla presentazione delle loro liste elettorali è inutile soffermarsi di più, essendosene già scritto e parlato abbastanza. Vi voglio invece sottolineare la conclusione del comizio.
Renzi ha chiesto ai compagni di partito di mobilitarsi in quest’ultima settimana di campagna referendaria andando porta a porta a convincere amici e conoscenti, a “citofonare”, a promuovere incontri e riunioni.
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Insomma il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha fatto quello che in una campagna elettorale fa ogni dirigente di partito. La mobilitazione chiesta da Renzi ai compagni, di cui ha detto di “fidarsi”, nonostante l’ostilità dichiarata dai vari Bersani e D’Alema, è in qualche modo simile a quella chiesta a metà mese ai compagni sindaci della Campania dal governatore della regione Vincenzo De Luca. Che di suo, nello stile che lo distingue, per linguaggio e temperamento, ha assegnato ad ogni amico un obbiettivo: 4000 mila elettori da spingere alle urne di là, 3000 di qua.
Renzi avrà magari pensato a qualche caffè e cornetto da offrire al bar, e persino ad una serata in pizzeria, mentre il disinibito De Luca ha parlato di fritture di pesce, di inviti in barca e altro. Ed essendo sindaci i suoi interlocutori, il governatore ha loro ricordato, peraltro non in un incontro segreto, ma nel salone di un albergo, dove si sono riprese regolarmente voci e immagini i rischi che potrebbero derivare da una sconfitta referendaria del governo e dalla sua caduta, fra i quali il blocco dei finanziamenti delle opere pubbliche e dei servizi utili ai Comuni da loro gestiti e alle rispettive popolazioni.
Al governatore De Luca quel discorso è costato un diluvio di polemiche sfociate nel solito fascicolo giudiziario e in una specie di stato d’allerta della Commissione parlamentare antimafia presieduta dalla sua compagna di partito Rosy Bindi. Che già l’anno scorso, includendolo in una lista di impresentabili per una condanna di primo grado appellata, e poi capovolta, fece rischiare la bocciatura elettorale all’allora candidato governatore, rimastoci tanto male da inveire ancora contro di lei come “un’infame da accidere”, versione napoletana del romanesco “va a morì’ ammazzato”.
Se tanto mi dà tanto, non vorrei che il comizio di Renzi nella Nuvola di Fuksas gli procurasse gli stessi guai di De Luca.
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