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Perché Matteo Renzi non mi convince sul Sì al referendum

Matteo Renzi

Le difese tecniche come le critiche tecniche sulla riforma costituzionale – cioè gli argomenti propri dei giuristi e dei politologi – al di là della concentrazione su alcuni aspetti e della loro semplificazione inevitabile e fuorviante, ormai contano poco. Questo referendum confermativo – con i limiti suoi propri che rasentano l’assurdo, non essendo richiesto un quorum di partecipazione, che già in origine delegittima qualsiasi risultato anche perché crea un divario tra la procedura rigida prevista dalla Costituzione e la procedura rilassata (a dir poco) e declassata della consultazione popolare – è diventato un referendum politico sul ruolo di Matteo Renzi.

Sia ben chiaro: Renzi non poteva fare altrimenti. È sbagliato criticarlo per avere personalizzato lo scontro. Se vince, non può condividere con altri la vittoria. Se perde, sa che nessuno lo conforterà assumendo una parte di responsabilità nella sconfitta. Paradossalmente è da alcune parti del fronte del No che si cerca di garantirgli un futuro politico anche in caso di sconfitta. Ma è probabile che sia tattica volta a rafforzare la determinazione di una parte del Pd a liberarsi di Renzi.

Non giova però a Renzi seguire la strategia di Hillary Clinton, la quale aveva detto di essere l’ultima linea di resistenza di fronte all’apocalisse. Renzi dice sostanzialmente la stessa cosa, identificando se stesso con l’innovazione e presentando la vittoria del No come un apocalittico immobilismo. Se c’è un popolo che non crede all’apocalisse e crede che ogni cosa sia aggiustabile, è quello italiano, alieno dalle scelte drastiche.

A favore del fronte del SI c’è una certezza: se vince il Sì, Renzi resta al suo posto. Contro il fronte del No gioca non solo la sua eterogeneità – ci sarebbe anche in caso di ballottaggio alle elezioni politiche, ove questo fosse confermato nella legge elettorale che tutti dicono di volere cambiare – ma la mancanza di una alternativa a livello di personalità: chi è l’anti-Renzi? Al dilemma, in parte, si sfugge, affermando che spetterà al presidente Sergio Mattarella sondare, meditare e decidere. È comodo, ma non c’è alternativa.

Torniamo sull’unico punto certo: se vince il Sì, Renzi rimane al suo posto. Ma per fare che cosa? Dire, come egli fa, che finora ha avuto le mani legate da istituzioni “decrepite”, non basta. Non sappiamo che cosa farebbe se avesse, non dico i pieni poteri, ma i poteri facili, cioè un Parlamento pronto ad approvare rapidamente i suoi disegni di legge e i suoi decreti. La rapidità è un valore positivo, ma i contenuti delle decisioni rapide non esistono. Renzi è una cambiale in bianco. Non conosciamo il suo progetto politico. Ha distribuito soldi, facendo debito, anche se a condizioni meno onerose (ma il vento sta cambiando). Ma né i consumi né la produzione sono aumentati. Quanto all’occupazione, i dati sono controversi e comunque siamo ai soliti “zero, virgola”. Questa Europa non gli va bene, ma non ha presentato un progetto alternativo. Da oltre vent’anni l’Italia si lamenta di essere stata lasciata sola di fronte all’immigrazione, ma Renzi ha solo strillato a voce più alta ed ha avuto promesse vaghe, che la Turchia può sempre far saltare (come ha minacciato ultimamente). Non voleva la Brexit, ma non sappiamo come intende reagire: se si allineerà alle posizioni ufficiali della Ue, non si vede perché, in altra sede e di fronte ad altre problematiche, dice che questa Ue non gli va bene. Voleva la vittoria della Clinton: avrebbe fatto meglio a rimettersi anticipatamente alle scelte degli elettori americani per giustificare che anche gli italiani andranno a votare al referendum senza suggerimenti esterni. Era a favore del Ttip quando anche un Hollande, ben prima della vittoria di Trump, aveva preso posizione contro. Tutto ciò dimostra che non ha una visione chiara delle vicende internazionali. Se si deve ammettere che l’opportunismo è una qualità del politico, si deve ricordare che non è una virtù.

Un Brandt, un Giscard, un Gonzales, un Aznar, un Kohl, uno Schroeder, una Merkel, un Chirac, adesso un Juppé, un Fillon e la stessa Maine Le Pen hanno puntato o puntano alla guida del governo avendo un profilo e dei contenuti programmatici, e nessuno ha mai detto che avrebbero avuto bisogno di nuove istituzioni per potere governare. È l’equazione renziana – datemi nuove istituzioni e “rivolterò” l’Italia – che non regge anche perché la riforma riguarda essenzialmente una ridistribuzione dei “poteri alti” mentre l’Italia non ha bisogno che sia rifatto l’attico, trasformandolo in un rigoglioso giardino pensile babilonese, ma ha bisogno di una riorganizzazione che, partendo dalle fondamenta e dalle cantine, coinvolga tutti i piani intermedi. Anche se Renzi vuole interpretare “l’imagination au pouvoir”, non ha rivelato i contenuti della sua capacità immaginativa. Le belle frasi di stampo nazional-popolare non costituiscono contenuto. Il PIL non sale né se sugli edifici pubblici si affianca la bandiera europea a quella dell’Italia né se la si toglie.

È in nome del bisogno di chiarezza sui progetti che io mi schiero per il No perché in Renzi non vedo né progetti né, soprattutto, una personale capacità progettuale. Tecnicamente, il referendum così congegnato non è un meccanismo per rafforzare a livello popolare le scelte istituzionali (la riforma della Costituzione effettuata secondo le regole dettate dalla Costituzione stessa) ma solo per consentire a una maggioranza relativa di elettori di smentirle e manifestare il suo distacco dalla classe politica.

Questo non vuol dire che la Costituzione vigente mi piaccia. Non è sicuramente la più bella del mondo e vorrei farla finita con il luogo comune del contributo alla sua formulazione delle tre classiche componenti: la cattolica, la laica e la socialista. Le sue non scelte, le sue sovrapposizioni, le sue confusioni di poteri dipesero dalla paura che quelle tre componenti avevano che vincesse la parte avversaria. Per questo costruirono un governo strutturalmente debole, un parlamento pletorico e un sistema di garanzie condizionato dalla politica. In settant’anni, il sistema è degenerato e la soluzione non verrà da questa riforma che nel suo insieme si ispira al modello leninista: il parlamento risponde al governo del partito di maggioranza e questo al suo segretario. Renzi a parte, quindi, anche sulla riforma in sé esprimo il mio No.

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