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Donald Trump e il programma dei primi cento giorni

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Anche se ormai le elezioni americane sono dietro le spalle, non cessa l’ascesa politica e la crescita di consenso di Donald Trump. Dopo che erano state paventati cataclismi finanziari ed economici in caso di sua elezione, ecco che invece i mercati finanziari, al pari di quanto avvenne con la Brexit e di quanto avverrà con qualsiasi risultato referendario pure in Italia, stanno dando risposte positive.

Soprattutto molto consistente è il riscontro che il Tycoon sta avendo tra la gente comune, nell’immaginario della tanto bistrattata classe media, quella che di fatto ha determinato la sua elezione.
Nel discorso del Ringraziamento, il neo presidente ha esposto il suo principale obiettivo immediato di coesione nazionale e unità, vale a dire la volontà di superare le lacerazioni provocate dalla lunga campagna elettorale. Egli sta proseguendo inoltre nel cammino di limatura del programma dei primi cento giorni che, come era prevedibile, non prevede né l’abrogazione immediata dell’Obamacare, né tanto meno iniziative legali contro Hillary Clinton.

Particolarmente interessante è la risolutezza con cui Trump sta cercando di non tradire la motivazione della gente, unita alla sua ferma intenzione di dimostrare che farà esattamente quello che ha promesso: defiscalizzazione e rafforzamento del ceto medio e anzitutto politica industriale senza più i balzelli ecologici e il Ttip.

Il porre l’“America al centro” significa chiaramente che la sua amministrazione non farà sconti a nessuno in materia di protezionismo, e che la pratica della politica estera sarà certamente incentrata sulla volontà di rompere gli schemi imposti dallo status quo tradizionale, optando su un dinamismo che, per molti versi, non ha precedenti.

Tutto ciò, d’altronde, fa parte di un proposito coerente per un leader come lui che deve il suo successo all’indipendenza della propria candidatura e al fatto di non avere vincoli imposti da interessi e da obiettivi predefiniti.

L’imprevedibilità, oltretutto, sta piacendo all’opinione pubblica statunitense la quale sembra avere fiducia nell’istinto e nella capacità di affrontare le questioni in modo contingente di Trump, decidendo il da farsi solo quando e solo nella misura in cui si presentino realmente i problemi davanti agli occhi.

Anche il lento e attento lavoro di costruzione della squadra di Governo, che vede al suo interno figure moderate e perfino estranee al suo stretto entourage, sono una riprova che egli non vuole essere in alcun modo condizionato e condizionabile, neanche da sé o dal proprio passato.

Una conseguenza che deriva da tutto questo è che l’Europa non è più centrale, non è più tra le priorità di Trump. Si nasconde insomma la scommessa che rendere il mondo migliore significhi pensare innanzitutto a sé, alla propria comunità, ai propri cittadini e alla propria nazione, un modo di ragionare che corrisponde esattamente all’attuale tendenza complessiva dei rapporti internazionali.

Se si considera questo lato della scommessa statunitense si può constatare il segno rivoluzionario di questa scelta degli americani. Davanti infatti alla crescita di potere di soggetti statali e comunitari compatti, come sono la Russia, l’Iran, la Turchia, la Siria, eccetera, ecco che la politica di Washington non sarà più quella di esercitare un controllo verticale di tipo sovranazionale, ma di bilanciare orizzontalmente con altrettanta energia e con maggiore elasticità la presenza dei partners, amici o nemici a geometrie variabili.

La vera grande novità è costituita ovviamente dai rapporti che Trump potrà stabilire con Vladimir Putin. Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, Russia e America torneranno ad essere il baricentro stesso della politica mondiale. Mentre però in passato la politica bilaterale era quella di un contenimento reciproco di tipo diplomatico, nel quadro di una relazione di sostanziale ostilità, oggi il futuro potrebbe presentare invece un’alleanza tra le due super potenze in grado di generare equilibrio e di garantire un ordine globale al di sopra dell’Europa e a prescindere da Bruxelles.

Si tratta di una caratteristica del nuovo assetto globale da tener presente, soprattutto se la Germania dovesse andare verso una minore stabilità politica, portando a compimento, in modo inedito almeno in questa forma, il superamento completo dell’eurocentrismo. In ciò si può notare anche il segno anticipatorio determinato dal Pontificato di Francesco, appunto non solo il primo Papa latinoamericano della storia del Cristianesimo, ma in specie il primo Vescovo di Roma ad aver spostato il centro di gravità della Chiesa fuori dal Vecchio Continente.

È quasi inutile osservare, alla fine, quanto questa situazione rappresenti una sfida proprio per gli Stati europei, alcuni dei quali l’anno prossimo andranno incontro a importanti appuntamenti elettorali. La risposta ad una situazione del genere, infatti, come quella rappresentata cioè da un possibile asse di ferro Mosca-Washington, può essere unicamente la fondazione di Unione Europea nuova, forte, federata, compatta e unita, i cui vertici siano elettivi e la cui difesa risponda ad obiettivi chiari e armonici.

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