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Perché Matteo Renzi è attapirato per la vittoria di Donald Trump

Di fronte alla clamorosa vittoria di Donald Trump, che diventerà il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti avendo battuto nelle elezioni la più accreditata Hillary Clinton, inutilmente sostenuta dal presidente uscente Barak Obama in persona, non so francamente se in Italia debba sentirsi preoccupato più Matteo Renzi o Silvio Berlusconi.

Il carattere antisistemico della vittoria – e che vittoria, per niente stentata nei numeri elettorali – favorisce nell’immaginario collettivo, dalle nostre parti, quello che è diventato l’antagonista più diretto e pericoloso del pur giovane presidente del Consiglio: non tanto l’ancor più giovane vice presidente della Camera Luigi Di Maio, che aspira senza misteri a candidarsi a Palazzo Chigi ma potrebbe incontrare rivali più forti nel suo movimento, quanto il meno giovane comico genovese Beppe Grillo. Del cui partito – o come altro preferiscono chiamarlo gli elettori e i parlamentari pentastellati – Eugenio Scalfari qualche sera fa in televisione si diceva incerto se definire più drammatico o comico per l’inconsistenza dei suoi velleitari programmi sociali e per l’inadeguatezza al governo che sta dimostrando in Campidoglio. Dove, con l’aiuto dei voti antirenziani di un certo elettorato di destra, è arrivata nella scorsa primavera la sindaca Virginia Raggi.

L’onda anti-sistema di Trump può funzionare da propellente per i grillini, su un cui sito specializzato in politica estera –l’Antidiplomatico- diretto da Alessandro Bianchi, noto nell’ambiente come collaboratore di un altro decisamente più celebre Alessandro, il deputato Di Battista, Dibba per gli amici, solo qualche giorno fa si riproponeva una domanda  del regista americano Oliver Stone sull’ancora candidato alla Casa Bianca: “Trump è pericoloso, ma cosa vi fa pensare che Hillary non lo sia?”. Hillary Clinton, naturalmente, moglie dell’ex presidente Bill, già segretaria di Stato al Dipartimento statunitense degli affari esteri e da tempo sotto schiaffo mediatico, a torto o a ragione, per la sua corrispondenza elettronica, i suoi finanziamenti e il ruolo avuto nella sfortunata guerra libica voluta soprattutto dai francesi, al termine della quale molti rimpiangono, nella stessa Libia e all’estero, l’assassinato dittatore  Mu’ammar Gheddafi.

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Di dichiaratamente comune con Trump i grillini hanno una certa simpatia per il presidente russo Vladimir Putin, caro in Italia, a dire il vero, anche a Matteo Salvini e a Silvio Berlusconi, pur tra loro duramente concorrenti, come vedremo più avanti, sempre a proposito degli effetti italiani della vittoria di Trump.

Ma ancor più in comune con Trump i grillini hanno la concezione della lotta politica: dura, direi addirittura spietata, con le loro imprecazioni contro gli avversari, col loro desiderio di vederli non solo sconfitti ma “in galera”, dove il vincitore delle elezioni americane negli ultimi comizi si compiaceva di voler mandare, o veder finire, la sua concorrente. Alla quale tuttavia bisogna riconoscere ch’egli ha avuto il buon gusto, festeggiando la propria vittoria, di rivolgere pubblicamente sorprendenti e belle parole di elogio e persino di ringraziamento per la tenacia nella corsa alla Casa Bianca.

Della loro abituale carica aggressiva, col propellente giunto da oltre Atlantico, Grillo e i suoi seguaci si faranno forti nella campagna referendaria in corso contro la riforma costituzionale di Renzi. Riforma della quale, diciamo la verità, ai pentastellati non importa un fico secco. A loro preme di più, come agli altri attori e comparsi del fronte referendario del no, a destra e a sinistra, fuori e dentro il Pd, l’annientamento politico di Renzi.

Ai grillini non importa nulla, o importa assai poco, anche della legge elettorale che Renzi è disposto a cambiare per rendere più digeribile la riforma costituzionale a chi ne teme il cosiddetto combinato disposto con l’altra. Ad essi importa solo che il paese resti ingovernabile per fare più facilmente l’opposizione e raccogliere poi il potere quando ritengono che, prima o dopo, cadrà nelle loro mani per decomposizione naturale.

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Passiamo adesso a Berlusconi, l’altro politico italiano, come dicevo all’inizio, più minacciato dagli effetti della vittoria americana di Trump. Che è caduta come manna dal cielo sul segretario leghista Matteo Salvini per la comune avversione ai fenomeni migratori, e la tendenza non ad abbattere ma a levare muri contro chi fugge dalla guerra o dalla miseria, o da entrambe, o solo chi aspira a una vita migliore.

Il tifo di Salvini per Trump in Italia è stato di una evidenza solare. E mentre ancora oltre Atlantico si contavano i numeri elettorali per valutare la consistenza del successo del magnate americano, un dirigente della Lega sottolineava a Milano – ripeto, a Milano, a pochi chilometri dalla residenza di Berlusconi –  l’urgenza di capire che anche quello schieramento abitualmente definito moderato ha bisogno di svegliarsi e di darsi, in pratica, una guida adeguata alla gravità dei problemi. Cioè, una guida per niente moderata, com’è quella cui aspira a viso ormai apertissimo Salvini, con buona pace di quanti fuori e dentro Forza Italia, compreso il buon Stefano Parisi, considerano possibile una riedizione del centrodestra a trazione non leghista.

Vi confesso che prima dei clamorosi risultati delle elezioni americane, quando si considerava ancora possibile un successo di Hillary Clinton, avevo pensato di commentarlo ironizzando sul giubilo dei leghisti per la vittoria elettorale conseguita domenica scorsa a Monfalcone, la città giuliana dei cantieri navali, di quasi 28 mila abitanti, strappata dopo 25 anni alla sinistra con l’elezione di Anna Maria Cisint, della Lega appunto, a sindaca col 62,49 per cento dei voti.

Non ho cambiato idea, sia chiaro, neppure dopo la vittoria di Trump, sull’enfasi eccessiva della Lega per la vicenda di Monfalcone. Ma mi ha impressionato la fretta con la quale la dichiaratamente moderata ex ministra Mariastella Gelmini, coordinatrice lombarda –credo- del partito di Berlusconi, ha partecipato all’enfasi leghista dicendo che quando il centrodestra “è unito, non ce n’è per nessuno”. Ma unito a guida leghista, come a Monfalcone?, vorrei modestamente chiedere alla Gelmini, ora che Trump fa ancora più sognare Salvini.

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