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Ecco perché Wall Street tifa Hillary Clinton

Ai mercati la Fed fa più paura delle elezioni Usa. A meno che a vincere non sia Donald Trump. Le previsioni degli esperti su cosa succederà a Wall Street e dintorni dopo le elezioni presidenziali dell’8 novembre si sprecano. Analisi dettagliate su quali settori saliranno e quali crolleranno, su come reagiranno i T-bond, sull’oro, sui tassi e chi più ne ha giù ne metta. Nell’immediato però, almeno secondo Patrick Moonen, Principal Strategist Multi-Asset di NN Investment Partners, “gli investitori sono più preoccupati per un potenziale rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed o per l’inflazione, che non del risultato delle elezioni presidenziali statunitensi. Eppure – continua lo strategist – una grande maggioranza (84 per cento) degli istituzionali crede che una presidenza di Trump possa avere un impatto negativo sui mercati azionari globali”.
Ma la stessa percentuale di investitori si aspetta “la vittoria di Hillary Clinton, e questo potrebbe quindi spiegare come mai le elezioni non sono viste come la possibile minaccia maggiore per gli asset d’investimento”.

STATUS QUO VERSUS INCERTEZZA
In generale, i mercati azionari globali percepiscono una vittoria di Hillary Clinton come una sorta di continuazione dello status quo, mentre, al contrario, la minor chiarezza nella linea di azione di Trump induce i mercati a considerare una vittoria di quest’ultimo come un fattore di incertezza, che indurrà quasi certamente maggiore volatilità.
Ma la vittoria della Clinton ha anche un aspetto potenzialmente negativo, ovvero la “probabilità di un governo diviso – sottolinea Mike LaBella, Portfolio Manager di QS Investors (Gruppo Legg Mason). Un simile scenario renderebbe difficile affrontare i maggiori problemi strutturali del Paese ed è possibile che a Washington si continui a operare con una mentalità orientata alle brevi scadenze, dal momento che i diversi schieramenti continueranno a rappresentare un possibile elemento di stallo del governo, essendo divisi su temi come i livelli massimi del debito. Se vincesse Trump i Repubblicani potrebbero prendere il controllo della Casa Bianca, Senato e Camera mettendo fine agli impasse politici”. Un paradosso, ma che spiega bene perché la tensione è alta e perché queste elezioni sono diverse da tutte quelle che le hanno precedute.

I DEMOCRATICI FANNO BENE ALLE BORSE
A guardare la storia, Wall Street ha sempre fatto meglio durante le presidenze democratiche: dal 1929, queste ultime hanno offerto un rendimento annualizzato del mercato azionario del 14,7 per cento contro il 5,4 per cento delle presidenze repubblicane; inoltre i rendimenti azionari USA risultano positivi durante ogni presidenza democratica dal 1929 e, anche escludendo la presidenza di Herbert Hoover (marzo 1929 – marzo 1933), concomitante con la Grande Depressione, il rendimento medio annualizzato repubblicano sale al 9,2 per cento ma risulta ancora nettamente inferiore al 14,7 per cento democratico. 
“Nonostante questa evidenza – spiega Kasia Kiladis, Investment Director di Fidelity International – è utile sottolineare che ciò potrebbe essere in primo luogo il risultato di contesti di mercato differenti. Le elezioni non sembrano avere un’influenza diretta sulla performance complessiva del mercato azionario, maggiormente influenzato dalle condizioni macroeconomiche, dalle valutazioni e dalle politiche monetarie. Per contro le politiche governative possono avere un impatto molto significativo a livello di specifici settori e aziende”.

SCENARIO 1: VINCE CLINTON
Quali sono gli scenari possibili secondo i gestori? “Il più probabile – scrivono in un report Philippe Ithurbide, global head of research e Didier Borowski, head of macroeconomics di Amundi – all’80 per cento, è la vittoria di Clinton, la cui politica economica enfatizza un aumento della spesa negli Usa, per supportare i consumi e la creazione di posti di lavoro, finanziata attraverso tasse più elevate sulle famiglie più benestanti e sulle aziende. Questo programma, se applicato, avrebbe un effetto economico sostanziale, persino nel breve periodo. Ciononostante, un simile scenario, in cui tutte le misure proposte verrebbero attuate, dipende dall’assunzione improbabile che entrambe le Camere abbiano una maggioranza democratica. Eppure la maggior parte dei sondaggi sembra mostrare che la Camera dei Rappresentanti rimarrà dominata dai repubblicani”. In questo caso, Hillary Clinton non sarebbe in grado di imporre il proprio programma, con la conseguenza di una “paralisi fiscale, che renderebbe lo stimolo fiscale impossibile: tuttavia la ripresa continuerebbe, ma a un ritmo inferiore, tra l’1,5 per cento e il 2 per cento all’anno. Se invece i democratici conquistassero il Senato e/o la Camera, ciò aprirebbe la possibilità di un compromesso bipartisan al Congresso, permettendo alla Clinton di portare avanti parte o l’intero programma di stimolo”. In quel caso, sarebbe ragionevole aspettarsi che la politica fiscale supporti l’attività economica (di circa lo 0,5 per cento del Pil, o qualcosa di più) entro il 2018.

SCENARIO 2: VINCE TRUMP CON UN PROGRAMMA AMMORBIDITO
Lo scenario che vede vincitore Trump è molto meno probabile (Amundi lo dà al 20 per cento) e, se si verificasse, costringerebbe il nostro a rivedere il suo programma (ipoteso probabile al 19 per cento, solo nell’1 per cento dei casi Trump verrà eletto e applicherà il programma che sta divulgando in questi giorni). “Difficile da valutare le conseguenze – spiegano gli esperti di Amundi – perché il suo impatto dipenderebbe dalle modifiche che il Congresso apporterebbe alle proposte di Trump. Il Congresso, attualmente controllato dai repubblicani, non è ostile ai tagli alle tasse e alla riforma fiscale, o ai risparmi nella spesa non militare, ma in generale è fermo nella sua opposizione all’aumento del deficit”. Dunque, il programma di Trump sarebbe molto ammorbidito: i costi complessivi delle misure ridotti, due terzi dei tagli fiscali verrebbero eliminati (e si concentrerebbero maggiormente sui redditi più bassi) e le riduzioni delle imposte sul reddito delle società sarebbero minime. “Anche in materia di immigrazione – continuano da Amundi – la tabella di marcia di Trump verrebbe modificata, e non verrebbero respinti gli 11 milioni di immigrati senza documenti. Invece, il ritmo delle espulsioni potrebbe tornare quello della Grande Recessione (500.000 all’anno). Le importazioni cinesi e messicane verso gli Stati Uniti non dovrebbero essere sottoposte ai dazi doganali inizialmente previsti”. L’economia degli Stati Uniti probabilmente sarebbe in grado di evitare una recessione, ma la crescita sarebbe indebolita perché i tagli fiscali impatterebbero sui consumi perché escluderebbero le famiglie più ricche. “L’occupazione rimarrebbe stabile nei primi due anni, e nei quattro anni di Presidenza, si creerebbe poco meno di tre milioni di posti di lavoro. In questo scenario, la crescita dell’occupazione non sarebbe abbastanza forte per assorbire la crescita della popolazione in età lavorativa e la disoccupazione aumenterebbe”.

SCENARIO 3: VINCE TRUMP E APPLICA IL PROGRAMMA
Nell’ipotesi più improbabile, ovvero vittoria di Trump e piena attuazione delle sue proposte, “tutti i tagli fiscali o l’aumento della spesa pubblica stimolerebbero le attività fino a 0,7 punti del Pil a partire dal primo anno. Eppure, le pressioni inflazionistiche e l’aumento della massa monetaria che vanno di pari passo con queste proposte (assieme al carattere insostenibile di quest’ultime) causerebbero (secondo simulazioni effettuate con modelli standard) un brusco aumento dei tassi di interesse a breve e lungo termine: 200 punti base il primo anno, 460 il secondo sul decennale, portando l’economia in recessione”. In caso di recessione, le pressioni inflazionistiche avrebbero una breve durata e la Fed potrebbe rapidamente ristabilire una politica monetaria non convenzionale (Twist o nuovo QE), l’unica che renderebbe sostenibile la politica di Trump. Ovviamente “i tagli delle imposte sul reddito delle persone fisiche e quelli sulle società mostrano chiari vantaggi economici nel lungo periodo. A parità di condizioni, stimolano risparmio e investimenti. Mentre peggiorerebbero commercio e prezzi: il forte aumento dei dazi doganali sulle importazioni cinesi e messicane aumenterebbe leggermente l’inflazione. Gli Stati Uniti importano da Cina e Messico il 35 per cento di tutte le merci che arrivano nel proprio territorio e l’adozione di una tassa del 45 per cento sulle importazioni cinesi e del 35 per cento sulle importazioni messicane aumenterebbe i prezzi su tutta la merce importata di circa il 15 per cento. Ciò alzerebbe tutti i prezzi per i consumatori degli Stati Uniti di quasi il 3 per cento dopo 18 mesi dal rialzo dei dazi doganali, nel modello di Moody’s”. Senza contare che la riduzione del numero di immigrati ridurrebbe la quota di popolazione attiva e la crescita potenziale della produzione e una serie di altri effetti collaterali che per fortuna, a oggi, vista la bassa probabilità che Trump vinca e sia supportato da un Parlamento coeso, restano solo teorici.

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